Armando Aste, cercatore d’infinito – 2

Armando Aste, cercatore d’infinito – 2 (2-2)

Questo articolo in due puntate dedicato ad Armando Aste, recentemente scomparso, è stato realizzato con il determinante contributo del sito www.armandoaste.it, ideato e curato da Alberto Cecchetto.

Lettura: spessore-weight**, impegno-effort***, disimpegno-entertainment***

Leggere qui l’attività alpinistica di Armando Aste.

Armando Aste racconta:

1950 – Ago di Nardis (Val Gabbiolo, Adamello), con Fausto Susatti.
Un’avventura in un ambiente tranquillo e selvaggio. Di questa via mi è rimasto impresso il ritorno al bivacco, ancora in Val Gabbiolo, attraverso gli alloggiamenti militari della Grande Guerra. Un’esperienza che ho rivissuto dopo anni, nel 1969, sulla cresta della Punta Seràuta, in Marmolada, dopo aver aperto la via Nives Rosa, una giovane bella ragazza veneziana, vittima del suo desiderio di salire in alto, magari senza la dovuta preparazione tecnica, che avevamo raccolto morente sulla Torre Venezia in Civetta.

1951 – Cima d’Ambiez (Brenta), parete sud-est, con Franco Salice.
Per una errata lettura della Guida del Castiglioni circa la parete sud-est della Cima d’Ambiez, credendo di ripetere la Via Stenico-Girardi, avevo aperto una via nuova su quella roccia ideale che, con mia grande gioia, risultò essere parallela a quella dei miei maestri Pino Fox e Marino Stenico. Via che, nel 1953, ho ripetuto da solo con una variante diretta.

1953 – Croz dell’Altissimo (Brenta), parete sud-ovest, via Steger, 1a solitaria (25 aprile).
In occasione d’una solitaria, Elvezio Bozzoli, fra le tante cose belle mi scriveva: “L’alpinismo è quel sentimento che va dal cuore alla montagna per la via più nobile, misconosciuta e silenziosa“.
Cos’è mai a spingerci lassù? Il bisogno di dimostrare a noi stessi, e agli altri, di valere qualcosa? Certo, anche questo. Ma è soprattutto un intimo bisogno di bellezza e di poesia che ci spinge ai monti. E lassù, forse, noi non cerchiamo anche la gioia? Anche se ne è una parvenza. Anche se è di breve durata.

Al ritorno dalla Cima Sud di Pratofiorito: Aste, G. Collini (custode del rifugio Agostini), Susatti

1953 – Cima Sud di Pratofiorito (Brenta), parete est, con Fausto Susatti (31 luglio – 1 agosto).
Nella Guida del Castiglioni avevo letto: “La superba parete della Cima Sud, invece, ancora inaccessa, costituisce senz’altro il più importante ed arduo problema alpinistico che ancora rimanga insoluto in Val d’Ambiez“.
Fausto ed io partimmo per questa nuova meta, anche con un suggerimento dell’amico Gino Pisoni. Vista dalla Forcolota di Noghera, la meravigliosa lavagna di calcare norico, si presenta frontalmente e ti incatena lo sguardo.
In due giorni di arrampicata magnifica, realizzammo la nostra prima creazione alpinistica di rilievo. Ricordo il cespo di stelle alpine in una nicchietta in parete e il primo bivacco sotto le stelle del cielo, (alla “bella stella”) come fiori astrali, contornati da una pallida e sfumata corolla.
Giungemmo in vetta in una festa di luce, col cuore gonfio di gioia e ci abbracciammo senza dire parole inutili. Nell’immaginario, con gli occhi della mente vedo ancora quel piccolo cespo di stelle vellutate.
Quell’opera ha rappresentato il mio primo amore per quanto concerne le vie nuove che, grazie a Dio, in seguito, mi sarebbe stato concesso di realizzare.

1953 – Spallone del Campanile Basso (Brenta), via Graffer-Miotto e via Pooli-Trenti, 1a solitaria (24 agosto).
Da tempo avevo il desiderio di effettuare la solitaria allo Spallon del Basso seguendo la via Graffer-Miotto e raggiungere la vetta per la variante Pooli-Trenti. Poi scendere per la parete Preuss. Tre anni fa, invece, sulle orme di Preuss e Comici salivo. Solo che allora pioveva e la nebbia, felicemente, proteggeva.
La luna inargenta le mute immobili crode mentre scendo per il serpeggiante sentiero della valle dei Massodi. La saettante figura del celeberrimo obelisco si staglia nel cielo punteggiato di stelle.
Fausto Susatti mi attende, con la sua moto, a Molveno per riportarmi a casa alla consueta realtà.

Dopo la Via della Concordia: Aste, Miorandi, Aiazzi, Oggioni

1954 – Punta Civetta, parete nord-ovest, via Aste-Susatti, con Fausto Susatti (26 – 28 luglio).
Attaccammo tardi e ponemmo il primo bivacco alla fine dello zoccolo della parete. La dirittura della via naturale corrispondeva alla goccia cadente, tanto cara a Emilio Comici. Era stato anche il progetto del grande Alvise Andrich, ma poi scelse la obliqua fessura di sinistra, un itinerario altrettanto bello, addirittura storico. Per la verità lo stesso Andrich aveva, in principio, pensato ai bellissimi diedri di destra, che allora gli parvero più bagnati. Fausto ed io passammo tre giorni indimenticabili su quella parete e per noi fu una escursione in un altro mondo. Ricordo che dopo il secondo giorno di arrampicata, dal nostro posto di bivacco si vedevano le montagne emergere da un mare di nebbie, come sospese nell’aria sotto un cielo terso. Mai avevamo visto una cosa simile, eravamo in un bagno di bellezza. Il terzo giorno giungemmo in vetta che era quasi notte, dopo il superamento dello strapiombo che sbarra l’uscita dall’ultimo diedro su in alto, un passaggio che il grande Philipp definisce il più difficile che lui abbia mai superato. Questo con le salite allora esistenti in parete.
Avevamo aperto una grande via, forse l’itinerario più naturale e più bello di tutta la grande Parete delle Pareti. In seguito, su quella parete sono state fatte tante vie certamente più difficili, come è nella logica delle cose, ma sul piano della bellezza sono un’altra cosa. Questo è il mio pensiero. Al di là del fatto che i primi salitori siano stati Aste e Susatti. Una valutazione che può essere condivisa o meno.

1954 – Torre Venezia (Civetta), parete sud, via Tissi-Andrich-Bortoli, 1a solitaria (30 ottobre).
La stagione era ormai inoltrata, ottobre stava per finire e le giornate, seppure limpidissime, erano già brevi e fredde. Dovevo muovermi, scegliere una meta, partire. Al primo mutamento del tempo sarebbe venuta la neve e allora, addio solitaria.
Sì, ascensione solitaria. Torre Venezia. Direttissima Sud. Che stupenda parete quella Sud. Quando ci penso, me la vedo davanti piena di sole, troneggiante sopra il rifugio Vazzoler. Come l’avevo vista la prima volta che avevo avuto la ventura di trovarmi fra i tormentati picchi dei Cantoni di Pelsa.
Ricordo che durante la scalata osservavo, stupito e incredulo, le piccole stelle alpine che via via trovavo negli anfratti della roccia. In quella stagione, ancora stelle alpine, e lassù per giunta. Ne colsi solamente qualcuna per me e per l’amico Lino che mi aveva accompagnato, la sera prima, da Rovereto a Listolade e quindi al mattino presto alla base della parete. Lassù ho vissuto il “Sogno di Ratcliff” di Mascagni.
Non è successo anche a voi, in qualche occasione, sentendo un brano di musica, di rammentare, riassaporare un po’ della vostra vita?

1955 – Cima D’Ambiez (Brenta), parete est, Via della Concordia, con Angelo Miorandi, Andrea Oggioni e Josve Aiazzi (30 giugno – 1 luglio).
Tre vie scavalcano la convessa parete sud-est della Cima d’Ambiez. La Fox, la Stenico e fra le due, quella che per l’errata interpretazione della guida Castiglioni, io stesso avevo tracciato. Ma non potevamo certo avere la presunzione d’avere risolto il problema dell’Ambiez, almeno, il vero, il più grosso. L’invitto era là: il diedro della parete est, dalla direttiva perfetta. Un unico formidabile appicco di quattrocento metri, senza soste, senza respiro; un susseguirsi conturbante di neri e di gialli.
Il forte Erich Abram, al ritorno da una via della zona, passando sulla grande cengia basale, levando lo sguardo sull’incombente Gran Diedro, disse: “Questa sì che sarebbe una gran via”. Quelle parole mi segnarono dentro. Sapevo che da giorni Oggioni e Aiazzi erano al rifugio Agostini in attesa del bel tempo per attaccare. Ma io ero senza compagno, Susatti si era tagliato un dito durante il suo lavoro di falegname. Fortunatamente Miorandi, uno dei miei allievi di Castel Corno, si offrì di farmi da compagno. Partimmo alla chetichella per il rifugio Agostini. Il primo approccio con i due famosi monzesi non fu proprio cordiale. Poi l’intelligente diplomazia di Aiazzi appianò tutto. Così all’indomani eravamo all’attacco del diedro in due cordate in armonia. Oggioni-Aiazzi e Aste-Miorandi.
Circa a metà parete scoppiò improvviso un temporale. Acqua, qualche turbinio di neve, saette e tanto freddo. Lì ci fermammo a bivaccare anche per asciugare i vestiti impregnati d’acqua. Malgrado tutto io ero tranquillo perché, con i nostri nuovi amici, mi sentivo in una botte di ferro. All’alba io e Miorandi attaccammo gli strapiombi sovrastanti e li superammo in sicurezza, seguiti a ruota da Oggioni e Aiazzi. Giungemmo felicemente in vetta, in una festa di luci e di colori con le vaporose nubi che incensavano il cielo. Firmammo il libro di vetta, chiamando il nostro tracciato Via della Concordia, un nome che sottolinea la stima, l’amicizia e l’accettazione reciproca che ancora e sempre dura fra noi.

1956 – Cima d’Ambiez (Brenta), parete est, Via Della Concordia, 1a solitaria (26 – 27 agosto).
Dopo avere chiesto il permesso a Oggioni e Aiazzi perché non intendessero la mia eventuale solitaria come uno sgarbo nei loro confronti, finivo quella fortunata stagione con la prima solitaria della via della Concordia in Brenta. Era il mio suggello di quell’indimenticabile 1956.

1957 – Civetta. Torre Trieste (Civetta), parete sud, via Carlesso-Sandri, 1a invernale, con Angelo Miorandi (8 – 11 marzo).
Ci eravamo allenati sulla Guglia di Castel Corno durante tutto l’inverno, per prepararci ad una nuova avventura: la prima invernale della Via Carlesso-Sandri alla Torre Trieste in Civetta. L’avevo già tentata in precedenza con Fausto Susatti, senza riuscirvi. Angelo Miorandi era il migliore dei miei allievi. Avevo imparato ad apprezzarlo come uomo, prima ancora che come alpinista coi fiocchi. Durante il servizio militare nel Corpo degli Alpini faceva l’istruttore di roccia. Successivamente, era emigrato in Germania per costruire per sé e la sua famiglia una avvenire dignitoso e sicuro. Partimmo per la nostra impresa col treno da Rovereto a Trento, proseguendo per la Valsugana fino a Primolano. Da lì, in corriera, fino a Bribano. Poi ancora in treno fino a Belluno. Da Belluno, in pullman, fino ad Agordo. Poi a piedi fino a Listolade da Silvio, dove passammo la notte. Il giorno dopo, attraverso la Val Corpassa, ponemmo il primo bivacco ai piedi della Torre Trieste. Il nuovo giorno iniziammo a salire, lenti ma sempre sicuri, fino a un posto di bivacco sopra il “muro giallo”. Col nostro fornelletto a benzina potevamo prepararci roba calda, sciogliendo la neve che c’era sulle cenge. Confortati da un tempo magnifico, proseguimmo fino alla seconda grande cengia, posto ideale per un nuovo bivacco. Devo dire che contro il freddo eravamo attrezzati alla bell’e meglio. Io avevo due paia di pantaloni, uno sopra l’altro, poi diverse maglie sotto, maglione e giacca a vento e un vecchio zaino della naia per portare l’indispensabile per la salita. Eravamo felici. Avevamo inventato una cantilena che diceva: “Tu che al diavol tagliasti i calli, o barber fègura vàcca”, riferito all’ipotetico barbiere dell’angelo nero, taifel nel nostro dialetto trentino, teufel in tedesco. Dopo il bivacco, l’ultima parte con il passaggio più difficile di tutta la salita, una placca compatta con un vecchio chiodo all’uscita. Non sono mai riuscito a spiegarmi come abbia fatto Carlesso a piantare quel chiodo determinante. La stessa perplessità l’avevo sentita da Armando Da Roit, che aveva fatto la prima ripetizione di quell’itinerario del quale si diceva che assommasse le difficoltà della via Cassin alla Ovest di Lavaredo e quelle della via Soldà alla Sud-ovest della Marmolada. Questo era il giudizio di quel tempo in fatto di salite estreme delle Dolomiti. Ma continuiamo con la nostra salita. Alla base del camino di uscita in vetta, ponemmo l’ultimo freddissimo bivacco, eppure arrampicavamo a mani nude. Non sentivamo il freddo perché la nostra circolazione era ottima. In vetta firmammo il libro e iniziammo subito la discesa a corde doppie. Riuscivamo a trovare i chiodi delle partenze con un intuito quasi animalesco, senza sbagliare. Arrivammo alla base della Torre in piena notte illuminati dalla luna. Rifacemmo in discesa notturna la Val Corpassa. Ricordo le cadute, nella neve soffice, con gli sci e le pelli di foca e giungemmo a Listolade da Silvio dove ci aspettava un buon letto. Ma chi riusciva a dormire con la gioia che avevamo dentro! Il giorno dopo, con i soliti mezzi, tornammo a Rovereto e quindi a Borgo Sacco. Ricordo quella salita come un sogno ovattato di bianco che spingeva la nostra vita un po’ più su, dove la neve ripuliva un favoloso ambiente restituito alla verginità ancestrale. Avevamo vissuto una lunga meditazione con l’anima alle stelle, in un paradossale canto silenzioso di una immaginosa natura emersa da epoche perdute. Avevamo iniziato il grande alpinismo invernale in Civetta, che poi avrebbe avuto degli sviluppi impensabili. Come ultima considerazione, devo dire che, se non avessi avuto i meravigliosi compagni che hanno condiviso le mie grandi salite, non avrei mai potuto raccontare questi frammenti meravigliosi di vita intensamente vissuta.

1958 – Punta Chiggiato (Pale di San Martino), parete nord, con Franco Solina (16 – 19 agosto).
La stagione 1958 segnerà per me e per Franco l’inizio delle grandi vie nuove. Pure questa via era già stata tentata da Oggioni e Aiazzi. Per noi è stata una salita abbastanza contrastata. Infatti, da metà parete, sotto la parte più difficile, ci cadde uno zaino con materiale e viveri assolutamente necessari. Fummo riforniti dal basso, un po’ scendendo noi e un po’ salendo da sotto i nostri provvidenziali sostenitori. Così il terzo giorno potemmo riprendere a salire un diedro giallo estremamente friabile, che io paragono a quello della via Carlesso-Menti alla Torre di Valgrande in Civetta. All’uscita dello strapiombo che sbarra il diedro, mi si levò un cuneo e feci un volo a testa in giù nel vuoto, trattenuto da un ottimo chiodo a “U” che avevo messo in sicurezza. Ma ero rimasto incolume e risalii la corda a braccia. Sopra, feci un’ottima sicurezza con buoni chiodi, e Franco mi raggiunse subito. Lì dovemmo bivaccare in qualche modo. Sbirciando dal sacco da bivacco, le luci di Falcade ci sembravano stelle di un unico firmamento.
Il giorno dopo, sempre con la massima attenzione per la pessima qualità della roccia, salimmo in vetta e scendemmo subito al rifugio Mulaz, accolti con calore dal gestore Silvio Adami e dagli alpinisti presenti. Avevamo fatto una grande via, che non consiglio di ripetere per la pericolosità del tracciato.

1958 – Anticima del Piz Seràuta (Marmolada), parete sud, Via Ezio Polo, con Toni Gross (17 – 20 settembre).
Questa fantastica parete era già stata tentata più volte e, ultimamente, da Oggioni e Aiazzi. Era stato l’amico Josve a parlarmene e con lui feci tre tentativi. Poi desistemmo. Ma mi era rimasto il dente avvelenato con il Seràuta.
Con un nuovo formidabile compagno di cordata, Toni Gross appunto, di Meida in Val di Fassa, tornai a tentare quell’affascinante problema. Passando da casa sua, dissi a Toni di portarsi un manico di scopa e un piccolo seghetto a mano. Lui rimase sorpreso perché non poteva capire il motivo di quella richiesta. Ma lo sapevo bene io. Nell’ultimo tentativo mi aveva respinto una fessura troppo stretta per entrarci con un braccio e una gamba, ma troppo larga per i cunei. Segai sul posto il manico di scopa a pezzi, che incastrai con attenzione nella fessura strapiombante riuscendo così a piantare un ottimo chiodo all’uscita, che lasciammo per eventuali ripetitori.
Un’opera che, complessivamente, mi ha impegnato per un mese contando i vari tentativi. Quando arrivammo in Valle Ombretta, scendendo dalla forcella a “V”, levando lo sguardo, mi sentii contento e allo stesso tempo rattristato perché ora quella parete non poteva più suggerirmi quei pensieri e quei sentimenti di quando era ancora inviolata. Perché l’uomo, ovunque egli passi, rompe un incanto. Per sempre.

Angelo Miorandi in vetta alla Torre Trieste dopo la 1a invernale della via Carlesso-Sandri

1959 – Torre del Focobòn (Pale di San Martino), parete nord, con Josve Aiazzi (21 – 22 luglio).
Già l’anno prima, in occasione della salita alla Punta Chiggiato, mi aveva attratto l’evidenza di questo problema. La parete troneggia su tutta l’alta valle del Biois, giù, sino a Falcade, sbarrando a nord-est la conca del Mulaz. Vera via della “goccia cadente”, una fessura perfettamente dritta dalla base al vertice, incide la torre nel suo mezzo. A differenza del Focobòn propriamente detto, qui la roccia è saldissima e permette un’inebriante arrampicata pressoché “libera”. Ad un tiro di corda dall’uscita trovammo un bellissimo terrazzino con fine ghiaino. Il tempo era bello e pensammo di fermarci a bivaccare. Così avremmo risparmiato i soldi per dormire in rifugio. Il giorno dopo scendemmo per la via normale, sull’opposto versante, che fa conoscere a chi è nuovo delle Pale, la segreta e selvaggia bellezza di questo gruppo. A torto trascurato da molti alpinisti (?) che frequentano solo le montagne di moda. Per bellezza e difficoltà tecniche, la pongo sullo stesso piano della via Tissi alla Sud della Torre Venezia. Merita di diventare una salita classica.

1959 – Piz Seràuta (Marmolada), Direttissima Sud, Via Madonna Assunta, con Franco Solina (10 – 15 agosto).
Con le sue lavagne monolitiche, che cadono a piombo in un susseguirsi per oltre settecento metri di altezza, il Piz invita e respinge al tempo stesso. La via Pisoni, spostata sulla sinistra, seppure grande via, a mio giudizio non risolve il problema del versante d’Ombretta. Ma per quegli anni era il massimo. Claudio Barbier e Marco Dal Bianco, senz’altro due fuoriclasse dell’arrampicamento, hanno compiuto la prima ripetizione di questo elegantissimo itinerario e ne sono rimasti ammirati. Mi inchino dunque davanti a quel formidabile arrampicatore libero degli anni Quaranta Gino Pisoni, degno compagno del grandissimo Ettore Castiglioni al quale noi tutti alpinisti, venuti successivamente, dobbiamo molto. Con l’amico fraterno Franco Solina, direttore della scuola di roccia alla “Ugolini” di Brescia, fummo bloccati, per tre notti e due giorni, in una nicchia a metà della parete. Si fa presto a dire, ma bisogna provarli. Tre notti e due giorni, soli. Si ha tempo di pensare. Di ascoltare e ascoltarsi. Anche se le parole escono monche, si intuiscono le rispettive personalità e ti accorgi con piacere delle molte affinità. Riconosci in lui, nell’amico, tante cose che tu non hai e che vorresti avere. Ti senti impulsivamente grato a lui di possederle anche per te. E ringrazi il cielo che ti ha fatto incontrare un simile compagno di avventura. Con Franco non ho problemi di sorta, sento di andare sul sicuro, di poter contare su delle certezze. Giungemmo in vetta al Piz solo dopo una settimana di permanenza in parete il 15 agosto, festa appunto dell’Assunta. Penso, in buona fede e con l’esperienza che ho, che sia una via di difficoltà superiore a tutte quelle che, finora “fanno da metro” nelle Dolomiti. Ovvio con mezzi tradizionali, non solo nei passaggi artificiali, ma, soprattutto, ai tratti in libera, maltempo a parte.

Dopo l’apertura del Gran Diedro Nord del Crozzon di Brenta: Aste, Bruno Detassis, Navasa

1959 – Crozzon di Brenta, Gran Diedro Nord, Via Giulio Gabrielli, con Milo Navasa (25 – 27 agosto).
Avevo sentito parlare spesso di questo problema, però, per un motivo o per l’altro, non l’avevo mai studiato a fondo. Dato che momentaneamente ero senza compagno stavo valutando la possibilità di una solitaria, allorché l’amico Bruno Detassis mi fece conoscere un valente alpinista di Verona: Milo Navasa. Breve dialogo, poi giù a preparare febbrilmente quanto avrebbe potuto servire nel “diedro” che assieme avremmo attaccato l’indomani. In tre giorni di lotta, confortati dal tempo magnifico, riuscimmo ad aprire la nostra via che dedicammo alla memoria del povero Giulio Gabrielli. Indimenticabile rimarrà in me la romantica notte, nell’alto silenzio del bivacco Castiglioni, sulla vetta del Crozzon. E la cavalcata fantastica, fino alla Tosa, tra le nebbie evanescenti. Dal punto di vista tecnico, penso che questa ascensione assomma sostenute difficoltà tecniche, sia in “artificiale” sia in “libera”. Sul libro di vetta, come commento, scrivemmo queste poche parole: “Gloria Tibi Domine!”.

1960 – Anticima del Seràuta (Marmolada), Variante Direttissima, con Milo Navasa (17 – 19 giugno).
Ancora al tempo della prima ascensione di questa superba parete (via Ezio Polo), pensavo alla variante diretta. Infatti lassù con l’amico Toni, avevo deviato dalla naturale traccia del diedro. Ci sarebbero voluti i chiodi a espansione e a noi, allora, ripugnava violare simili verginità usando mezzi che non fossero tradizionali. Così dal punto di vista estetico, l’opera rimase incompiuta. Mi si perdoni l’immodestia, ma il desiderio di tracciare per primo la “goccia cadente”, su quella lavagna da giganti, era ormai cosa mia. Così, non stetti più a disquisire sui nuovi mezzi artificiali. Con la tenacia e con l’amore con i quali un artista scolpisce la sua opera, tornai lassù con l’amico Milo per il “ritocco”. Ora l’opera è compiuta. Rimarrà muta testimone di un accanito assalto al cielo. Condotto da piccoli, ma non presto arrendevoli, uomini.

Aste alla base della Parete Rossa della Roda di Vael

1960 – Roda di Vael (Catinaccio), parete sud-ovest (Parete Rossa), Via Buhl, 1a solitaria (11 – 13 luglio).
Nel 1958 i due tedeschi Brandler e Hasse avevano iniziato a usare i chiodi a pressione, una nuova tecnica che permetteva di risolvere problemi, fino allora dichiarati insuperabili. Così, per la Parete Rossa della Roda di Vael, dove aprirono una via dedicata a Hermann Buhl, che divenne un polo di attrazione per le migliori cordate di allora. Marino Stenico ne aveva compiuto una delle prime ripetizioni. Mi aveva parlato di questo itinerario in termini elogiativi. Lui era un conversatore piacevolissimo e credibile. Un giorno lo andai a trovare nella sua abitazione a Trento. Gli chiesi il suo parere circa il mio desiderio di tentare la prima ripetizione solitaria, appunto la Via Buhl alla Roda di Vael. Ci pensò un poco, poi mi disse che avrei potuto farcela. E poi così è stato, pur col conforto dell’amico Toni Gross che da sotto mi faceva sentire il suo incoraggiamento. Sul libro di vetta scrissi queste parole: “Introibo ad altare Dei, ad Deum qui laetificat juventutem meam (mi appresserò all’altare del Signore, a Dio che rende lieta la mia giovinezza)”.

1960 – Spiz d’Agner Nord (Pale di San Martino), spigolo nord-ovest, Via Fausto Susatti, con Josve Aiazzi e Franco Solina (22 – 24 agosto).
Era una promessa fatta a me stesso: dedicare una grande via alla memoria del mio primo grande compagno di scalate Fausto Susatti. Ci voleva però una via degna di Lui, un itinerario come Egli avrebbe voluto. Così pensai ai formidabili picchi dominanti la remota valle di San Lucano, a pochi chilometri da Agordo, nel Bellunese. Così, il pensiero si rivolse allo Spiz d’Agner Nord. Esso rivolge verso valle due affascinanti spigoli di pari bellezza e difficoltà. Con Josve e Franco, scegliemmo lo spigolo di destra. Bellissimo itinerario, roccia magnifica, parallelo alla via Gilberti-Soravito sul monte Agner. Uno sviluppo di oltre mille metri, con qualche tratto di “sesto” in ambiente severo e selvaggio. Fummo accompagnati da tempo ideale. Due bivacchi in parete e uno, indimenticabile, in vetta. Penso che Fausto fosse con noi. Perché, se le anime non si incontrano sulle vette, non si incontrano in nessun altro posto.

Marino Stenico in sosta sul Pilastro sud-est del Gran Mugone

1960 – Cima Ovest di Lavaredo, parete nord, Via Couzy, 1a solitaria (3-6 settembre).
Nel 1959 due cordate di francesi, René Desmaison con Pierre Mazeaud seguiti da Pierre Kohlmann con Bernard Lagesse, aprirono un itinerario tremendo e spaventosamente bello sulla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, intitolandolo a Jean Couzy.
Marino Stenico con Donato Zeni e Lino Trottner passarono momenti drammatici su quella parete. Marino mi parlava di strapiombi continui e di traversi impressionanti e dei voli nel vuoto dello zaino, quando lo recuperavano. Come il pendolo di un orologio. Tanto disse e tanto fece da mettermi nel cervello un tarlo che continuava a rosicchiare, malgrado io cercassi di farlo tacere. Un giorno andai a Trento da Marino e gli dissi che volevo tentare quella salita da solo. Marino mi chiese subito se per caso non fossi pazzo. Poi rimase a lungo in silenzio mentre io aspettavo la sentenza. Ad un tratto mi disse: “Se proprio vuoi andare, io ti accompagno all’attacco”. Tirai un sospiro di sollievo, quasi di certezza. Accompagnato dal mio maestro, mi sentivo in una botte di ferro. Attaccai con una pacca sulle spalle di Marino, mentre mi diceva semplicemente: “Vai”. C’era anche l’amico Camillo Gaifas con la cinepresa e l’amico Venturelli. C’era anche la guida alpina Enrico Mauro.
Il giorno dopo erano venuti in scooter da Borgo Sacco gli amici Italo Brighenti e Pierino Caresia a farmi sentire la loro presenza. In quattro giorni di lotta con la parete e con me stesso, riuscii nel mio intento. Ero sicuro che ce l’avrei fatta perché ero in uno stato di grazia. Sentivo che la cosa mi era concessa ed ero in pace con me stesso. Penso che questa impresa sia stata un’evasione in un’altra dimensione. Un grosso passo avanti. Per la benevolenza di Dio.
Davanti a me, 150 metri, c’era una cordata austriaci, i quali avevano delle assicelle a mo’ di panchetto per sostare o bivaccare sugli strapiombi. Io avevo solo il mio zainetto, la corda con cui mi facevo le autoassicurazione, i moschettoni, le staffe, i chiodi, il martello e il sacco da bivacco. Arrivato più su, circa 150-200 metri, dove dopo c’è un traverso, mi sono fermato e vedevo gli austriaci che recuperavano lo zaino con un cordino. Lo zaino oscillante nel vuoto mi dava tutta l’idea dello strapiombo, ma ciò non mi spaventava, mi incantava… Verso sera il secondo degli austriaci, Helmut, mi chiamò perché andassi da loro. Rifiutai. La mia era una solitaria e non potevo certo andare dietro le scarpe degli altri. Loro hanno capito. Arrivato al tratto giallo, dove c’è l’unico terrazzo, lungo un metro e mezzo e largo tanto così, mi sono fermato per passare un’altra notte.

Armando Aste all’attacco in solitaria della via Couzy alla Cima Ovest di Lavaredo

All’alba di un nuovo giorno, dopo un ultimo bivacco in un incavo sotto il grande strapiombo della via, prima di prepararmi al superamento di quell’ultima difficoltà, recitai, come sempre, le preghiere del mattino, legato in un’unione spirituale con i miei cari e con tutti i fratelli uomini.
Di quella stupenda salita mi è rimasto un ricordo unico e indelebile. Ero tranquillissimo e godevo di quel momento irripetibile, sull’orlo dell’ultimo grande strapiombo sopra un vuoto di trecento metri. Mi sembrava di volare, arrampicando nell’aria, sostenuto dalle grandi ali del mio angelo custode.
Pensai che se da quel punto aereo si immaginasse una linea perpendicolare verso il basso, potrebbe finire circa a settanta metri oltre la base della parete. Così ha scritto René Desmaison, capo della cordata francese, tracciando quell’itinerario da brividi, eppure affascinante. Tornando a ritroso nel tempo, ho la certezza di essere sempre stato protetto da Qualcuno che mi conosceva da sempre, oltre il tempo. Sapeva dei miei fallimenti, delle ricadute e delle risalite nel corso del mio tempo.
La Via Couzy, alla parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, è una via spaventosamente bella, mi scuso per il paradosso, con continui strapiombi. Avevo la sensazione di arrampicare quasi nell’aria, con l’illusione di entrare in una nuova dimensione più alta, un passo avanti sul cammino della conoscenza. E’ questo il ricordo più incisivo che mi porto dentro di quell’impresa.

1961 – Gran Mugone o Cima dei Mugoni (Catinaccio), pilastro sud-est, con Marino Stenico, (8 – 11 luglio).
I quotidiani avevano parlato ampiamente di questa scalata nella quale, a comando alterno, eravamo impegnati Marino Stenico ed io. Salita acrobatica e di interesse puramente accademico. Da L’Adige, riporto uno stralcio che mi pare illustri bene l’ambiente. “La Cima dei Mugoni, enorme monolito di Dolomia principale, senza stratificazioni e con poche oblique fessure, si alza massiccia dal suo piedestallo di ghiaie. Essa si trova a est dell’ormai famosa Roda di Vael e quasi alla testata della Busa del Vaiolon. Pur rimanendo incorporato da un lato, sul versante sud si stacca un grosso torrione quadrangolare di circa trecento metri. Nel punto di contatto del massiccio principale, prendono forma due diedri vertiginosi: il diedro est, percorso dalla via Vinatzer, e il diedro sud percorso dalla via De Francesch. Tra le due vie si staglia diritto, aereo, impressionante, il pilastro sud-est…“.
Lì era salito il nostro sguardo alla ricerca di un itinerario. “Dove una volontà, là una via…”. Abbiamo voluto dedicare quest’impresa a due amici tragicamente scomparsi: Piergiorgio Nichelatti e Filippo Berti. Il primo, ex presidente del gruppo “boci” della SAT di Trento; il secondo, un appassionato arrampicatore rimasto vittima d’un fulmine sulla via Dibona alla Roda di Vael.

Aste in solitaria sulla via Couzy alla Cima Ovest di Lavaredo

1961 – Punta Oreste Gastone (Marguareis, Alpi Liguri), parete nord, con Armando Biancardi (18 luglio).
Rivedo i paretoni della catena del Marguareis, cenerentola reginetta delle Alpi Liguri, paretoni che si specchiano con i loro toni freddi e caldi insieme nel laghetto. E, su quella “sinfonia” giallo-grigio-rossastra con aspetti dolomitici, via a perdita d’occhio per cinque chilometri in lunghezza, “note” che si alzano, con pareti a piombo, per più di seicento metri. Questa è la montagna dell’altro Armando, di Armando Biancardi. Lassù, al rifugio Garelli, uno di quei rifugi che erano ancora così come dovrebbero: dove non c’era custode e, per entrarci, bisognava prelevare la chiave a fondovalle. Lassù, dove la vita aveva un sano sapore arcaico, e nessuno veniva a turbare il nostro “ritiro”, abbiamo vissuto giorni indimenticabili. Su quelle rocce, non prive di pericoli per la loro friabilità, abbiamo aperto una bella via alla parete nord della Punta Oreste Gastone, sostenuta, di quinto. L’amico Biancardi ha un bagaglio cospicuo, se oltre a circa seicento ripetizioni sull’intera cerchia alpina, dalle Marittime alle Dolomiti con “invernali”, salite su ghiaccio, sci-alpinistiche, e un bel pizzico di “quattromila”, conta qualcosa come sessantotto prime ascensioni, di cui alcune da “solo” e da “capo-cordata” e di cui non poche di difficoltà estrema.

1961 – Punta Tino Prato (Marguareis, Alpi Liguri), spigolo nord-est, con Armando Biancardi (22 – 23 luglio).
Il maggiore titolo alpinistico di Biancardi è quello di aver aperto quasi tutte le vie al Marguareis, ripetendo la altre poche, nessuna esclusa. Si sente spesso parlare di “innamorati” della montagna che vivono per essa. L’altro Armando era uno di questi. Ma egli non era né solo uno sportivo né solo un intellettuale. Ma l’uno e l’altro allo stesso tempo. Per questo, accanto all’azione alpinistica, a sua ispirazione, può vantare qualcosa come più di mille articoli su temi legati alla montagna e all’alpinismo. Ha diretto tre periodici (SUCAI, Il frondista, Commercio) e dato alle stampe cinque volumi: La voce delle altezze (1956), Cento anni di alpinismo torinese (1963), Venticinque alpinisti scrittori (1989), Racconti impossibili e dintorni (1994), Il perché dell’alpinismo (1995). Ha ricevuto venti riconoscimenti letterari in campo nazionale e internazionale fra cui due Saint-Vincent, i premi Chamonix e Cortina. Nel 1995 i delegati del CAI riuniti a Cuneo gli hanno assegnato una medaglia d’oro. È stato accademico degli scrittori di montagna (GISM). Per questo poderoso insieme, e delle “prime” e della parte culturale, io lo considero un “maestro”. Da lui ho imparato e continuo a imparare moltissimo.

Aste apre la Via Rovereto allo Spallone del Campanile Basso

1961 – Spiz d’Agner Nord (Pale di San Martino), spigolo nord-est, Via Andrea Oggioni, con Franco Solina e Angelo Miorandi (4 – 5 agosto).
Dopo la salita dello spigolo di destra questa cima selvaggia presentava un altro problema, forse ancora più difficile, certamente più affascinante: lo spigolo di sinistra. Lo avevo tentato una volta da solo, con due bivacchi: uno all’attacco, l’altro a metà spigolo. Ero salito sul “filo del rasoio”, forse in un momento poco felice. Fino a che a un certo punto ebbi paura. Era quel silenzio sepolcrale che aveva influito negativamente sull’animo? Forse, stavo perdendo davvero il senso della misura. Dov’è il punto limite? Ci abituiamo a chiedere a noi stessi sempre di più, fino a quando? Umiliato, sconfitto, annientato, scesi un po’ arrampicando e un po’ in “doppie”. Tornai in compagnia di Franco e Angelino. Con due bivacchi, uno alla base e uno a metà, là dove mi ero già fermato, riuscimmo in vetta. Ottocento metri, su roccia compattissima, con estreme difficoltà in “libera”. Dedicammo al povero Andrea Oggioni questa grande via. E pensammo che con Fausto si trovasse bene lassù. Da una parte Oggioni, dall’altra Susatti. Un primo e un secondo di corda. Una cordata formidabile impegnata nella scalata al cielo. Su uno dei più bei pilastri dell’ineguagliabile navata dolomitica.

1961 – Campanile Basso (Brenta), parete ovest dello Spallone, Via Rovereto, con Angelo Miorandi (10 – 11 settembre).
Nel settembre del 1961 mi trovavo al rifugio Brentei e parlando con il re del Brenta, Bruno Detassis, gli chiesi di indicarmi qualche bella via da fare. “Va a far l’Ovest del Spalon del Bas“, mi disse. Io lo presi subito in parola. Telefonai all’allora presidente della SAT di Rovereto, Bruno Bini, tra l’altro datore di lavoro di Angelo Miorandi, che gli concedesse il permesso di raggiungermi su al Brentei. Infatti il mio amico Camillo Gaifas, che era il cognato di Bruno, il giorno dopo, mi raggiungeva, con Angelo. Il giorno seguente attaccammo la Ovest dello Spallone del Campanile Basso, una parete di ottima roccia sulla quale tracciammo un bell’itinerario che chiamammo Via Rovereto. Un bel nome per una salita stupenda, con un bivacco e con grandi difficoltà in arrampicata libera. Mi piace ricordare che, dopo la salita, a notte inoltrata, al Brentei, Bruno era lì che ci aspettava, preparandoci un buon tè caldo e un sorprendente grappolo d’uva. Disse semplicemente: “Magné”.

Sulla Via Andrea Oggioni allo Spiz d’Agner Nord

1962 – Eiger (Alpi Bernesi), parete nord, 1a italiana della via Heckmair, con Franco Solina, Pierlorenzo Acquistapace, Andrea Mellano, Romano Perego e Gildo Airoldi (12 – 16 agosto).
Il 1962 era l’anno maturo per l’Eiger. Sulla via Hasse-Brandler, sulla parete nord della Cima Grande di Lavaredo, io ero con Solina e con la cordata di Nando Nusdeo e Casimiro Ferrari. Dopo l’ultimo tratto ghiacciato della via, Nando mi disse: “Puoi andare sull’Eiger quando vuoi”. Di quella parete conoscevo tutto, le vittorie e le tragedie, cercando di capire perché. Accompagnati da Bruno Tamiello e da Giorgio Matassoni, due amici roveretani, passando da Brescia con la loro Seicento, imbarcammo Franco Solina e ci avviammo verso Grindelwald, la conca sottostante la grande parete dell’Eiger. Facemmo una prima ispezione salendo con la cremagliera fino alla Kleine Scheidegg. Poi scendemmo a un fienile vicino ad Alpiglen. Lì attendemmo, per cinque giorni, il tempo favorevole. Il proprietario di quel podere venne a farci visita per stipulare il suo dovuto compenso. Poi ci disse: “Italiani sull’Eiger. Morgen du kaputt”. Alla Scheidegg, dopo un ripensamento, accettammo che Pierlorenzo Acquistapace, di Lecco, si aggiungesse alla nostra cordata. Dopo un primo bivacco, sopra il “Nido di rondine”, fummo raggiunti dalla cordata di Andrea Mellano, Romano Perego e Gildo Airoldi. Decidemmo di salire assieme la tristemente famosa Grande Parete. Non la faccio lunga. Sul “Ragno bianco” ebbi la sensazione di camminare sulle uova, poi, inforcate le fessure terminali di uscita, tornai tranquillo, sicuro della vittoria. Dopo cinque bivacchi in parete, rinunciando alla velocità per la sicurezza, giungemmo incolumi in vetta. Dopo aver subìto, nel bene e nel male, tutte le situazioni che la parete presenta, al penultimo bivacco, sotto lo strapiombo di ghiaccio, recitammo il Rosario. Sul libro di vetta, dopo la data, 16 agosto 1962, vicino ai nomi di Oscar Soravito e Massimo Mila, che avevano salito la Cresta Mittelegi, scrivemmo queste parole: “Gloria a Te, Signore”.

Aste apre la Via Fausto Susatti allo Spiz d’Agner Nord

Dopo tutti i commenti cattivi e invidiosi e il poco cordiale ambiente locale, tornammo a casa felici e contenti. Avevamo superato la famigerata parete dell’Orco, altro che “gita sociale” come malignò Walter Bonatti! Ma voglio ricordare che con me nessuno si è mai fatto male, neanche la più piccola scalfittura. Questa è la mia risposta a tutte le cattiverie che sono seguite.
Nel Cinquantesimo della prima italiana alla Nord dell’Eiger, il CAI organizzò a Brescia un incontro in nostro onore: Eiger. Un accadimento da non dimenticare. “Buhl, corda”, era la richiesta di aiuto della cordata francese, guidata da Gaston Rébuffat e Guido Magnone, durante una tremenda bufera, che si era scatenata improvvisamente. E’ un fatto che rimane nella storia delle salite sulla via classica della grande Parete dell’Orco. Ma Buhl, che stava sopra, ormai non ne aveva più. Infatti, è stato il suo compagno Sepp Joechler a trarlo fuori dall’ultima parte della parete per arrivare in vetta. Mentre i francesi uscirono per conto loro, dopo.
Questo fatto è riportato nel documentatissimo libro di Giovanni Capra Due cordate per una parete.

1962 – Cima Tosa (Brenta), parete ovest, Via Città di Brescia, con Franco Solina (6 settembre).
Dopo la prima salita italiana alla parete nord dell’Eiger, con Franco aprimmo una bella via sulla parete ovest della Cima Tosa, alla testata della Vedretta dei Camosci. La chiamammo Via Città di Brescia, in omaggio al mio amico Franco, che è appunto di Brescia, la “Leonessa d’Italia”.

Angelo Miorandi e Franco Solina in vetta allo Spiz d’Agner Nord dopo l’apertura della Via Andrea Oggioni

1963 – Patagonia Argentina (Cile). Spedizione CAI Monza. Torre Centrale del Paine, da nord, 2a ascensione della Via degli Inglesi. Torre Sud del Paine, 1a assoluta (per parete e cresta nord). Dal 7 dicembre 1962 al 28 febbraio 1963. Componenti: Giancarlo Frigieri (capospedizione e organizzatore), Carlo Casati, Josve Aiazzi, Nando Nusdeo, Vasco Taldo e io. Anche due giovani universitari cileni, Mario Alfaro e Pedro Durand, essi stessi posseduti dalla passione andina erano della partita.
Spedizione alla quale ho avuto la fortuna inaspettata di essere invitato, penso per la buona parola di Josve Aiazzi, che avevo conosciuto sulla Via della Concordia alla Cima d’Ambiez in Brenta, e di quella di Nando Nusdeo, con il quale mi ero trovato sulla via Hasse-Brandler alla Nord della Cima Grande di Lavaredo (in quella occasione lui era in cordata con Casimiro Ferrari).
L’idea era nata per ricordare il grande Andrea Oggioni che, nel 1961, aveva perso la vita sul Pilone del Freney al Bianco. Di quella prima spedizione, delle sette che ho compiuto complessivamente negli anni a seguire, conservo il ricordo di un fantastico sogno vissuto realmente. Col viaggio via mare siamo stati assenti dall’Italia per oltre tre mesi.
Le Torri sono ubicate nella zona dell’estancia Cerro Guido, allora amministrata dai signori Wilson, inglesi, della società Esploradora, una multinazionale proprietaria di quell’immenso “cielo” di terra dove vivono ottocentomila pecore merinos, mille più, mille meno, custodite e spostate, da pascolo a pascolo, dai gauchos, campioni nella doma dei cavalli selvaggi.
Da oltre un mese una spedizione “scientifica” (!) inglese si trovava nella zona. Obiettivo vero: le Torri del Paine Centrale e Sud. La Torre Nord e la cima principale (Cerro Paine) erano già stati saliti nel 1957 dalla spedizione di Guido Monzino.
Ho ricordi positivi di quell’avventura umana prima ancora che alpinistica. La fraterna amicizia che era nata fra noi partecipanti. I vari incontri con gli italiani residenti a quelle latitudini, assolutamente nuove per noi. In particolare l’incontro conviviale in un ristorante chic di Punta Arenas col nostro ambasciatore italiano a Valparaiso, che aveva noleggiato una aerotaxi per fare un giro attorno alle Torri, atterrando nel campo in terra battuta dell’aeroporto dell’estancia Cerro Guido.

Sulla parete nord dell’Eiger, prima italiana

Gli accadimenti particolareggiati di quella spedizione si possono leggere nei miei libri Pilastri del cielo e Nella luce dei monti. Dopo gli estenuanti ripetuti tentativi, intercalati da pause di tempo meteorologico impossibile, siamo riusciti tutti a ripetere la Via degli Inglesi alla Torre Centrale, in vetta il 17 gennaio, il giorno dopo della loro vittoria. In seguito, abbiamo salito la vergine Torre Sud, completando così i nostri obiettivi. Eravamo in vetta alla “nostra” Torre il giorno 9 febbraio 1963.
Nel silenzio più assoluto ci abbracciammo in vetta. Solo due parole: “Vasco – Armando”. Poi si scatenò il vento che suonava l’organo del cielo al diapason. Come se l’enorme tastiera fosse toccata dalle magiche mani di Johann Sebastian Bach. Sul vertice estremo urlammo il nostro grazie alle montagne e al cielo.
Ancora oggi, dopo oltre cinquant’anni dalla spedizione alle Torri del Paine, quando ripenso all’arrivo in vetta alla vergine Torre Sud, mi sembra di essere lì. Il vento suona l’organo del cielo. Il sole dardeggia. L’aria è limpida sotto un grande cielo di profondo blu che mette i brividi. Una lama di granito rosa al confine con l’azzurro impalpabile. Una porta, un velo davvero si scopre per un fuggente attimo. Abbiamo visto, abbiamo ascoltato, abbiamo bevuto alla fonte che lascia un desiderio, quasi un tormento, ancora più grande, perché, dentro, ci brucia un soffio d’infinito. Mi rivedo con le braccia alzate in atto di suprema adorazione. Un ringraziamento urlato sale nell’aria: “Grazie, grazie montagne”. Con la certezza che il Signore sapeva, da sempre, chi erano i piccoli uomini a cui era stata riservata quella montagna che stava sotto i loro piedi.

In vetta all’Eiger, dopo la prima italiana della parete nord: da sinistra, Aste, Perego, Acquistapace, Airoldi e Solina

In treno dopo la Nord dell’Eiger: da sinistra, Perego, x, Acquistapace, Solina, Airoldi, Mellano, Aste

1964 – Marmolada d’Ombretta, parete sud, Via dell’Ideale, con Franco Solina (24-28 agosto).
Salendo al Passo d’Ombretta dal rifugio Contrin nell’estate del 1954, avevamo visto di scorcio la convessa parete d’argento della Marmolada d’Ombretta, segnata da una lunga linea scura che indicava una via ideale. Dovetti aspettare dieci anni per sentirmi maturo per quell’impresa con Franco Solina. Intanto, la lunga riga che incide il centro della parete, era rimasta intoccata. Perché quella si preannunciava un passo avanti alle salite dei mostri sacri di quel tempo. Lunedì 24 agosto 1964 siamo all’attacco della via dell’Ideale, un capolavoro che ha segnato il grande alpinismo moderno in Marmolada. Quando Franco Solina ed io aprimmo quella grande via, sui circa quattro chilometri di parete, da Forcella Marmolada al Seràuta, esistevano complessivamente sette itinerari. Oggi, fra vie, viette, fessure, placche e camini, siamo arrivati a centocinquanta… Che pena! La più grande parete di roccia delle Alpi, la regina delle Dolomiti, declassata a palestra, magari la più grande palestra del mondo. Eppure sulle montagne della terra ci sono infinite possibilità per appagare l’ambizione e ogni orgoglio più personale. Ma è destino, purtroppo, che l’uomo, ovunque egli passi, abbia a lasciare la traccia di un incanto svanito. Rotto per sempre. E’ questo il rimpianto che ci è rimasto dentro in seguito a quella salita, perché a questo mondo niente è perfetto. Ad ogni modo, la nostra creazione resta una pietra miliare nella storia dell’alpinismo dolomitico, sulla parete d’argento della Marmolada d’Ombretta. Malgrado le ripetizioni in tempi eccezionali, le invernali, le solitarie, la via dell’Ideale rimarrà l’opera d’arte di Aste e Solina. Di quella nostra salita, unica per bellezza, qualità della roccia, interesse storico per la celebrità della montagna e per il tempo magnifico che ha accompagnato la nostra ascensione, di quell’opera d’arte alpinistica, ricordo le spruzzate d’acqua polverizzate dal vento, che, viste controluce, sembravano polvere di stelle. Allora la via dell’Ideale l’avevo qualificata la più bella salita di roccia pura delle Alpi. Nella grotta del penultimo bivacco lasciammo, in una bottiglia vuota, un biglietto con queste parole: “Nel nome del Signore, 28 agosto 1964. Questa è la via dell’Ideale. Auguri ai ripetitori“.

Franco Solina in uno degli innumerevoli bivacchi con Aste

1965 – Marmolada di Rocca, parete sud, Via della Canna d’Organo, con Franco Solina (13 – 18 agosto).
Fra la Punta Rocca e la Marmolada d’Ombretta una serie di torri orlano la cresta della montagna. Dal rifugio Falier si vede stagliarsi nettissimo un caratteristico campanile, simile a una canna d’organo con un precipite strapiombante spigolone.
Avevamo studiato minuziosamente le molte fotografie prese. Lo scorso anno, tracciando la Via dell’Ideale, avevamo avuto modo di scoprire altri preziosi particolari e fissarci ancora più nella nostra decisione: aprire la Via della Canna d’Organo.
Abbiamo lottato con i denti per attrezzare una costola fessurata sulla faccia destra del colatoio. Pioggia, grandine, poi anche la neve. E’ inutile ormai. Dovremo bivaccare ancora in questo inferno di pareti dai riflessi sinistri. Lucide d’acqua e foderate, a tratti, da colate e grappoli di mostruose stalattiti di ghiaccio.
Siamo rannicchiati sotto una sporgenza arrotondata. Non c’è la possibilità di indossare i sacchi da bivacco. Le giacche a vento sono inzuppate; pensiamo che è meglio levarle. Il frastuono della cascata che passa a un metro da noi diventa di minuto in minuto più insopportabile. Saremo capaci di resistere fino ai primi albori?
L’acqua batte, cade, gorgoglia, schizza, rimbalza. Assume voci e rumori sempre diversi e contrastanti. Assordanti e gentili. Mostruosi. Struggenti. Ora voci sconosciute eppure amiche mi chiamano. Ecco sì, distintamente, le voci dei miei cari. La voce di mio padre che dice sempre: “Va là, sta a casa che l’è meio”. Quella di mia madre che è inquieta, addolorata, implorante. Quasi disperata. Mia madre. Mai ho pensato tanto a lei come ora.


Con gli occhi sbarrati stiamo a sperare che il volume d’acqua diminuisca, che il frastuono si vada smorzando.
Il tempo sembra essersi fermato. Mi dolgono terribilmente le ginocchia per la forzata innaturale posizione, mi duole la spalla lussata. Credevo di saperne abbastanza, ormai, di bivacchi, ma questo, il centesimo, è veramente tremendo. Quanto tempo è passato?
Intanto la canna d’organo suona ancora, suona sempre, seppure con minore intensità, ora. Arriva il tanto sospirato mattino e quasi per magia la parete si apre a tratti e mostra strappi di cielo azzurro. Saliamo ora sempre più penosamente, seppure su difficoltà decrescenti a mano a mano che la pendenza addolcisce. Ormai la volontà è in disarmo: sentiamo prossima la meta.
Credo di non avere mai desiderato come ora il calore del sole, la luce, la fine di una salita. Franco un’ultima volta mi raggiunge con l’impossibile carico di roba e ferramenta tintinnante e prima ancora di riprendere fiato, mi stringe con le sue forti braccia in un muto amplesso. Con un’incrinatura di commozione nella voce dice una cosa bellissima: “E’ meglio che siamo qui soli, Armando”.
Sullo sfondo, alcune cordate salgono nel sole la “schiena di mulo” della Punta Penìa. Sono le dieci del diciotto agosto 1965.

1966 – Ande Patagoniche. Spedizione Vittoria Alata. Tentativo alla Torre Innominata (Fortaleza).  Componenti: Franco Solina, Alberto Aristarain, Cesarino Fava, Fausto Barozzi, Mario Castellazzo, Filippo Pippo Frasson ed io.
Nella prima spedizione al Paine, avevo adocchiato una colossale torre innominata, di fronte alle tre torri più celebrate. Sostenuti da alcuni amici bresciani del CAI, fu organizzata la spedizione Vittoria Alata. Obiettivo: la Torre innominata del Paine.
Anche questa volta, come in tutte le occasioni delle mie spedizioni in Patagonia, siamo stati aiutati, da Angelo Battegazzore, un piemontese di Alessandria. Personalmente sono sempre stato accolto come uno di loro da tutta la sua famiglia. Non lo potrò mai dimenticare.
Dopo il viaggio in nave prima, poi treno e camion avevamo installato il campo base all’inizio della salita che porta alla valle del Rio Asensio, che nasce dai ghiacciai ai piedi delle Torri del Paine.

Aste sulla Torre Centrale del Paine, via degli Inglesi

Quella fu una spedizione sfortunata fin dal principio. Dopo aver approntato il campo venne un carabinero della polizia di confine cilena a portare la triste notizia che Fausto doveva tornare subito a Baires perché suo padre era in fin di vita. Noi, pur addolorati, rimanemmo, cominciando i trasporti del materiale occorrente per l’avvicinamento alla montagna sognata, che avremmo chiamato “Torre dell’Amicizia”.
Iniziammo subito i nostri ripetuti tentativi, sempre frustrati da un tempo impossibile. Dopo nove bivacchi complessivi su quella Torre, flagellati dalle più tremende bufere patagoniche, dovemmo rinunciare, ricacciati ad appena un tiro di corda estremo dalle rocce terminali della vetta. Nell’ultimo tentativo fummo bloccati per due giorni e tre notti, sotto mezzo metro di neve, che paradossalmente ci riparava dal vento e dal freddo. Uscimmo per il “rotto della cuffia”, come si dice.
Ero salito sulle placche ghiacciate, sbatacchiato qua e la per liberare le corde doppie che non riuscivo a recuperare. Con grande rischio e fatica riuscii a liberarle, per continuare le discese, in una atmosfera da tregenda, con la consapevolezza di essere dei sopravvissuti.
Eppure, nell’ultima notte, in un battere di denti, ho sognato fantastici pilastri di granito rosa, emergenti da immensi ghiacciai luccicanti al sole. Mi svegliai di soprassalto e mi accorsi di essere senza ali, ma con le lacrime agli occhi. Era la ritirata, la sconfitta che metteva a nudo la nostra pochezza di piccoli uomini. Ci eravamo illusi di poter osare oltre ogni ragionevole rischio lecito. Fu una lezione di umiltà.
Abbiamo sempre pensato che anche una sola vita umana vale più di tutte le montagne del mondo e che i nostri cari a casa ci aspettano sempre con grande trepidazione.
Di quella spedizione mi sono rimasti incancellabili ricordi di gelo.
Fine della mancata spedizione alla Torre dell’Amicizia, che rimane la Torre Innominata del Paine, detta anche Fortaleza.

Aste sulla Torre Sud del Paine

1968 – Anticima Nord della Cima della Busazza (Civetta), parete ovest, Via Angelo Bozzetti, con Josve Aiazzi (12 – 13 luglio).
Dopo le ripetizioni, per “allenamento”, della via Paolo VI al Pilastro della Tofana di Rozes e lo Spigolo degli Scoiattoli sulla Cima Ovest di Lavaredo, sempre con Aiazzi, facemmo una bella “prima” sulla parete ovest dell’Anticima Nord della Busazza. Una sparata di ottocento metri che dedicammo alla memoria di Angelo Bozzetti, di Aosta. Durante la salita mi imbattei in una piccola zolla di fiorellini bianchi e volli prenderne qualcuno. “Non strapparli tutti”, mi disse Josve. Ne colsi solo tre che poi mandai alla vedova del povero Angelo e alla figlia, perché parlassero loro del loro grande marito e papà. Angelo Bozzetti, guida alpina della società della Valpelline, l’avevo conosciuto quando con Franco Solina avevo tentato lo Sperone Cassin alle Grandes Jorasses. Ricordo che, dopo un bivacco alla fessura Allain, flagellati dalla tempesta che rivestì tutta la parete di una corazza di ghiaccio, scendemmo a corde doppie sotto continui scarichi della parete.

1971/72 – Fitz Roy (Patagonia), tentativo al Pilone Est. Spedizione Città di Rovereto. Componenti: Mariano Frizzera, Graziano Maffei, Angelo Miorandi, Sergio Martini, la giovane stella del gruppo, Franco Solina e io.
“Quale generazione oserà attaccare il Pilone Orientale?”. Questo scriveva il dottor Marc Antonin Azéma nel suo libro Fitz Roy, Cerro di Patagonia che racconta la conquista (1952) della vergine cima da parte della spedizione francese di Lionel Terray, Guido Magnone, Jacques Poincenot e Azema stesso.


Quelle parole mi martellavano dentro, ci sarebbe voluta una spedizione adeguata. Grazie all’aiuto di Giovanni Spagnolli (presidente generale del CAI dal 1971 al 1980), Franco Galli (presidente SAT di Rovereto dal 1968 al 1985) e tanti altri non meno importanti, i Lions e i Rotary riuscii ad organizzare la Spedizione Città di Rovereto. Io ero il responsabile di quel formidabile gruppo di alpinisti della scuola roveretana, fatta eccezione per l’amico Solina di Brescia.
Non do i particolari, giorno dopo giorno, della nostra permanenza in zona, dei vani tentativi al Pilone, del tempo meteorologico impossibile, e i settanta giorni a fare l’amore col terribile Pilone. E’ tutto raccontato nel miei libri Pilastri del cielo e Nella luce dei monti. Per farla breve dirò che dopo tredici giorni e tredici notti di un’eccezionale continua nevicata, il nostro campo alto che avevamo scavato ai piedi delle rocce fu sommerso da metri e metri di neve, per cui perdemmo tutto il materiale portato fin lassù per tentare di scalare il fantastico Pilone. Dovemmo giocoforza pensare al ritorno in Italia. Chissà perché non ci fu concessa una nuova conoscenza di noi stessi e del cielo australe. Comunque penso di poter dire, anche a nome dei miei amici, che laggiù sotto il cielo della Croce del Sud abbiamo vissuto un’avventura indimenticabile.
Aggiungo un episodio scherzoso. Graziano, detto Feo, dopo aver cucito i pantaloni strappati, andò a dormire con gli aghi nella tasca posteriore. Al mattino dopo ci raccontò di aver sognato che gli stavano facendo una iniezione che non finiva mai. Ci accorgemmo che un ago, sfortunatamente, gli si era infilato in un gluteo. Con pazienza e sopportazione del soggetto, l’ago poté essere estratto.
Rientrammo a casa con uno stringimento al cuore, ma ben vivi e con una ulteriore lezione di umiltà.

1972 – Torre Venezia (Civetta), parete sud, Via John F. Kennedy, 1a invernale, con Mariano Frizzera, Angelo Miorandi e Tarcisio Pedrotti (31 dicembre 1972 – 2 gennaio 1973).
Dopo la salita, tornati al tabià del rifugio Vazzoler stanchi e affamati, trovammo una tavola imbandita con un po’ di cibo, che per noi fu una vera manna, lasciata da alcuni alpinisti che avevano assistito alla nostra salita ostacolata da un insistente nevischio. Oltre al resto, c’era anche un tovagliolo di carta sul quale c’erano scritte alcune parole di augurio, firmate Nilo Niccolai da Venezia.

Aste nella prima invernale della Via John F. Kennedy, parete sud della Torre Venezia

Prima invernale alla Via John F. Kennedy, parete sud della Torre Venezia

1976 – Fitz Roy (Patagonia), parete ovest, tentativo di recupero salme di Filippo Frasson e Marco Bianchi.
Febbraio 1976. Componenti: Franco Solina, Mariano Frizzera e io.
Una commossa lettera di Cesarino Fava, mi portava la notizia che il nostro amico Filippo Frasson, aveva perso la vita con il suo compagno Marco Bianchi, anche lui un emigrato in Argentina, tentando di ripetere la via del Californiani sulla parete ovest del Fitz Roy. I genitori di Pippo, si erano rivolti a Cesarino per tentare il recupero della salma del figlio. Cesarino mi disse che con il nostro aiuto si poteva provare, anche se era come cercare un ago in un pagliaio. Ne parlai ai miei genitori. Mia madre disse: “Dove vuoi andare ancora, non vedi che siamo vecchi e malati”. Dall’Argentina vennero a casa mia a Rovereto la madre e il padre del povero Pippo e parlarono ai miei. Alla fine mia madre disse: “Ma sì, va là, va”. Interessai Mariano Frizzera e Franco Solina e con l’aiuto di Giovanni Spagnolli da Roma, nell’occasione ospitati nella sua abitazione ai Parioli, partimmo in aereo per l’Argentina.
A Buenos Aires si unirono a noi altri ragazzi del luogo, Attilio, il fratello di Filippo, Cesarino Fava, Boris Cambic, uno slavo amico di Cesarino e padre Ernesto Milan, missionario scalabriniano, originario del Vicentino.
In quattro giorni saliamo due volte il canalone attrezzando con corde fisse i punti più difficili. Mano a mano che andiamo avanti cerchiamo un segno qualsiasi che ci faciliti il ritrovamento delle salme.
A circa duecento metri dalla Sella degli Italiani, Mariano scorse una traccia rossa nella conca di ghiaccio dove emergeva un pezzo della giacca a vento di Pippo, che noi ben conoscevamo. Col pericolo dei blocchi di ghiaccio che sporgevano minacciosi sopra di noi, impiegammo due giorni a estrarre Pippo dal ghiaccio e sotto di lui la salma di Marco. Scavando con le piccozze, piccole schegge ghiacciate, che si attaccavano alle nostre giacche a vento, sciogliendosi lasciavano una piccola macchia rossa che non ero capace di sopportare. I rossi tramonti di quei quattro giorni, sembravano dipinti di rosso sangue. Legammo le due salme dure come fossero appena estratte da un freezer. Un abbraccio fra due morti. Cesarino con un colpo di piccozza, tagliò l’anulare di Pippo per togliere l’anello matrimoniale da portare a Maria Luisa, come da sua richiesta. Durante la discesa, i corpi si infilarono in un crepaccio, a seicento metri dalla base. Malgrado ogni rischioso tentativo, non riuscimmo a recuperarli. Arrivammo alla base, accolti da Attilio, padre Ernesto e Boris.
Il giorno dopo padre Ernesto celebrò una messa vicino al cippo di rocce contornato dalla corda che Toni Egger aveva attorno alla vita quando morì nella discesa dal Torre dopo aver raggiunto la cima con Cesare Maestri. Diciassette anni fa furono trovati i suoi resti alla base del ghiacciaio del Torre. Col magone tornammo alla baracchetta del nostro campo base, sotto il picchiare della pioggia sul telo di nylon che riparava il piccolo rifugio. Padre Ernesto celebrò ancora una santa messa, dicendoci parole di conforto nella piccola omelia. Cantammo “Signore delle Cime”, carichi di tutte le nostre cose scendemmo al Parque. Malgrado la triste atmosfera ci pensò Mariano a farci capire che la vita continuava comunque.
Giunti al Parque sapemmo che i Ragni di Lecco, guidati da Casimiro Ferrari stavano salendo il Pilone che nel 1972 avevamo attaccato anche noi. Mi misi in contatto con Casimiro e gli dissi di vincere anche per noi. Poi ce ne tornammo a casa in Italia.
Per quel tentativo fummo insigniti dell’“Ordine del Cardo”, che certamente fu gradito. E’ superfluo dire che saremmo stati più felici di riportare le salme a valle. Per i loro cari e anche per noi.

Armando Aste, Pino Fox, Josve Aiazzi

1978 – Torre della Vallaccia (Monzoni), spigolo nord-ovest, via Rizzi-Gross, 1a solitaria (fine settembre, due bivacchi).
Il mio canto del cigno per le “grandi imprese”. Con mia moglie eravamo andati a Meida di Fassa a trovare il mio amico Toni Gross, che mi era stato compagno nella salita all’Anticima del Seràuta, in Marmolada. Da Meida, per una felice angolazione del sole, avevo visto, su in alto, lo spigolo nord-ovest della Vallaccia e rimasi folgorato da quella visione concreta.
A fine settembre mia moglie sarebbe andata qualche giorno al mare così io le dissi che, nel frattempo, sarei andato “a fare un giro in montagna”. Senonché, quando lei tornò dal mare, io non ero ancora tornato a casa. Lei rimase in pensiero, ma ci pensò il mio amico Mariano Frizzera a tranquillizzarla con qualche lecita bugia. Intanto io stavo compiendo la prima solitaria della via di Toni Rizzi e Toni Gross allo spigolo della Vallaccia. Durante i miei bivacchi in parete, l’amico Tonin da Meida, mi faceva segnali luminosi con una pila elettrica e io gli rispondevo accendendo un cerino pur visibile nella notte fonda. Ricordo che, anche durante la mia prima solitaria della Via Buhl alla Roda di Vael, da sotto l’amico Tonin mi faceva sentire la sua voce di incoraggiamento. Scendendo dalla Vallaccia mi fermai a casa dell’amico, dove potei fare un bagno ristoratore. Dopodiché, con la fortunata occasione di una gentile signora che scendeva a Trento in macchina, potei finalmente tornare dalla mia ignara moglie, ringiovanito “dentro”.
Questa salita ha segnato la fine del mio grande alpinismo. Poi, trascinato dai miei amici Frizzera, Miorandi e Solina, ho voluto salire in vetta al Campanile Basso di Brenta, a distanza di cinquant’anni dalla prima volta che ero arrivato su quella guglia. Poi, per l’interesse storico, ancora un’ascensione speciale al Campanile di Val Montanaia, la cima ideale del mio illustre amico Spiro Dalla Porta Xydias, decano e difensore etico ed emblematico del nostro Club Alpino Italiano.
Su questa inimitabile guglia sono salito due volte, la prima con Miorandi e Solina, e la seconda con Frizzera e il suo compagno Luciano Santini di Trieste.
Del famoso Campanile voglio costruire un’immaginosa rappresentazione. Siamo in una conca attorniata da una corona di monti. In mezzo c’è una base di lancio per satelliti. Inizia la conta per il lancio: dieci, nove, otto…. tre, due, uno. Viene dato il via. Dalla conca emerge un siluro di pietra puntato verso il cielo: il Campanile di Val Montanaia. Sulla vetta c’è una piccola campanella che porta una scritta: “Audentis resonant per me loca muta triumpho (da questi luoghi silenziosi risuoni il trionfo degli audaci)”. E’ la voce della campana. In Nomine Domini.

Solina e Aste a Malga Ritorto, Madonna di Campiglio, 17 settembre 1991

1983 – Torre Città della Quercia (zona del Lago San Martin, Patagonia), 1a assoluta, con Cesarino Fava, (febbraio).
In vetta, Cesarino e io stiamo a lungo supini a guardare i numerosi condor che volteggiano regali e curiosi intorno a noi.

1983 – Tentativo di ripetizione della Via dei Cileni al Querno Sur (Principale) del Paine (Patagonia), con sei compagni. Spedizione dal 1° novembre al 15 dicembre.

1985 – Cerro Astillado (Torre Spagnolli) (Patagonia).
Era scomparso da poco l’illustre amico Giovanni Spagnolli, già Presidente del Senato. Poiché era stato anche presidente generale del CAI il mio amico fraterno Giorgio Zandonati mi suggerì l’idea di ricordarlo degnamente dedicandogli magari una cima vergine in Patagonia. Il Cerro Astillado.
Lunedì 7 gennaio 1985 partiamo in quattro da Linate per Buenos Aires. Io, Mariano Marisa mio concittadino, Mario Manica pure di Rovereto e Fabrizio Defrancesco di Moena. Questi ultimi entrambi della scuola alpina della Polizia di stato di Moena. Scrivono Silvia Metzeltin e Gino Buscaini in Patagonia: “… (i quattro componenti) sono in vetta il 22 gennaio 1985, dopo attrezzatura parziale dell’itinerario. Per la parete sud-ovest: 400 m di zoccolo (II-IV), 300 m di parete (dal IV al VI+, A3). TD+. Roccia friabile. Campo Base sul versante est, a circa 20 km dall’Estancia Maipú (posto di gendarmeria); Fonti: Lo Scarpone, 1985, 14 (con foto da nord-est); Alpine Journal, 1986, 206)”.

Incontro a Milano per i Cento Alpinisti, 2000. Da sinistra, x, y, Marco Anghileri, Mariano Frizzera, z, Armando Aste, Vasco Taldo, Franco Solina, Bepi Pellegrinon, Alessandro Gogna 

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Armando Aste, cercatore d’infinito – 2 ultima modifica: 2017-10-01T05:30:20+02:00 da GognaBlog

6 pensieri su “Armando Aste, cercatore d’infinito – 2”

  1. 6
    Alberto Cecchetto says:

    Ma cosa vuole il Luca Visentini? Questa è storia di un Alpinismo con la A maiuscola, che piaccia o no.

  2. 5
    Alberto Benassi says:

    ho avuto la fortuna di conoscere Armando Aste . Venne parecchi anni fa a Pietrasanta a fare una serata. Da li ci siamo tenuti in contatto. Gli ho scritto parecchie volte per avere informazioni sulle sue vie e mi ha sempre molto gentilmente risposto. Una volta sono stato anche  a casa sua a trovarlo e mi portato a vedere la palestra di Castel Corno dove ha imparato  a scalare guardando di nascosto gli altri. Un’altra volta con un amico siamo tornato a trovarlo di ritorno dalla sua via al Crozzon di Brenta portandogli un vecchio cuneo di legno recuperato sulla via.

    La prima sua via che ho salito è stata nel 1985, la Rovereto allo spallone del Basso.  Il mio martello bello nuovo fiammante si spezzò e mi rimase in mano solo il manico . Poi son venute la Canna d’Organo, l’Ideale, il Diedro della Pratofiorito, la Aste-Salice all’Ambiez, il Diedro del Crozzon di Brenta, lo spigolo Oggioni alla Spiz D’Agner Nord,  la Aste-Susatti alla Civetta.

    La Ezio Polo all’Antecima del Serauta, invece ci ha bastonato. Non siamo riusciti a passare la famosa fessura dei manici di scopa. Dopodiversi tentativi e  un bel volo, con il mio compagno ci siamo detti che era abbastanza. Meglio ritornare.

    GRANDE ARMANDO !!

  3. 4
    Fabio Bertoncelli says:

    Eh, sí! Esistono perfino alpinisti cattolici! E hanno il diritto di professare la loro fede e di pubblicare i loro libri. Insomma, hanno il diritto di esistere.

    E noi, che non crediamo, non possiamo proibirglielo. Anche se non ci piacciono i rosari recitati durante i bivacchi in parete.

  4. 3
    Luca Visentini says:

    Certi commenti.

  5. 2
    Luca Visentini says:

    Scontatezze. Basta!

  6. 1
    Fabio Bertoncelli says:

    Questi articoli di tipo biografico sugli alpinisti del passato sono molto interessanti, comprese le fotografie d’epoca. Continua così!
    Poi potranno eventualmente essere raccolti in un libro, che farebbe ottima figura nel panorama attuale dell’editoria di montagna.
    Questa è storia! E non deve andare perduta. Agli storici (Alessandro Gogna in primis) il compito e l’onore di provvedere.
    La storia li ringrazierà. Fabio Bertoncelli li ringrazierà (e comprerà subito il libro ???).

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