Il rischio, sentinella invisibile – 2

Il rischio, sentinella invisibile – 2
di Ivan Guerini
(tratto da Annuario CAAI 2009, per gentile concessione)

 

Il rischio dell’incognita intatta
Confrontando però la tipologia d’effettuazione di quelle salite con la solitaria del Diedro Conforto in Marmolada compiuta da Heinz Mariacher nell’estate del 1979 senza averlo percorso in precedenza, ci si accorge di come in quest’ultima sussistano due difficoltà in più, l’incognita e l’imprevedibilità che impediscono di poter “addomesticare” le esperienze verticali e si tratta di impedimenti sostanziali mancanti nelle realizzazioni sopracitate.

Il fatto di rischiare non dipende dall’essere poco assicurati in cordata, autoassicurati o slegati da soli, forniti o del tutto privi di mezzi tecnici che in casi estremi si potrebbero utilizzare, ma soprattutto dall’incognita intatta che s’incontra affrontando una salita senza immaginare ciò che ci aspetta, di cui fanno ovviamente parte lo stato di compattezza e d’instabilità della roccia con le possibilità d’assicurazione a loro annesse e che riflettono inevitabilmente le capacità effettive degli arrampicatori.

Un tempo questo veniva espresso con considerazioni di questo tipo: Mi sono messo nei pasticci… Sono finito in un punto dal quale non riesco né a procedere né a retrocedere…

Oggi sappiamo che arrampicando a un certo punto si può udire una voce inevitabile come quella di una hostess di volo che ti indica d’essere entrato in un territorio dove sono incerti l’esito e la direzione da perseguire. Si tratta di situazioni che possono ricordare il racconto di Reinhold Messner in Ritorno ai Monti, davanti al passaggio chiave del Pilastro di Mezzo, enigma d’un punto cruciale che durante la prima ascensione di quell’itinerario suo malgrado si è trovato ad affrontare. Riflettendo sulle impressioni dell’autore di quella salita mi vien da pensare che quel passaggio, più che banco di prova d’un “rischio sfidato”, fu la pietra miliare d’un “limite di caduta” incontrato, attraversato e superato che, nella cinematografia di montagna, è ben rappresentato in Break on Through di Robert Carmichael. Dunque, nell’incognita intatta possiamo riconoscere un settimo elemento configurativo del rischio.

Dan Osman
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Sogno, Morte e Trasfigurazione
In un’intervista ad Hansjörg Auer, realizzata durante il Film festival di Trento, a proposito della sua solitaria integrale al Pesce in Marmolada compiuta in meno di tre ore (Hansjörg aveva già salito così anche Tempi Moderni), ci si accorge che raccontando egli nomina ripetutamente la parola “sogno”. Il fatto che i sogni per lui corrispondano a ciò che per molti sono veri e propri incubi o nella migliore delle ipotesi cimenti impegnativi all’estremo, invita a riflettere su ciò che i sogni rappresentano per gli arrampicatori in rapporto alle salite.

I sogni non sono un prodotto della volontà, ma sorgono inaspettati a liberare la mente dalle gioie e timori derivati dalle esperienze più forti, che ci hanno segnato proprio perché non immaginavamo di viverle. Dunque al sogno corrisponde soprattutto l’ignoto che unisce ciò che non ci si aspetta con ciò che di noi ancora non conosciamo.

Il fatto che Hansjörg Auer avesse salito il Pesce da solo dopo averlo percorso in precedenza in cordata e un giorno prima lo avesse addirittura disceso in doppia per studiarne i passaggi più impegnativi, e quindi si muovesse nell’ambito di una incognita ridimensionata, più che un sogno pare quasi la realizzazione d’uno stato ipnotico paragonabile al vuoto mentale della pratica meditativa Zen, la quale porta la psiche in condizioni di disancorarsi dagli stati emotivi.

Da taluni i sogni a “occhi aperti” sono ritenuti assai pericolosi perché anelano a realizzare nella realtà qualcosa che è a cavallo delle “esigenze fantastiche” di una “concretezza rischiosa”. Non a caso per la mitologia greca Hypnos (il Sogno) era fratello di Thanatos (la Morte) in quanto manifestazioni speculari, entrambe immateriali rispetto alla vita.

Mutuando il titolo inquietante della famosa opera di Richard Strauss Morte e Trasfigurazione, si potrebbe riconoscere anche nel rischio, in quanto “sentinella”, una potenzialità di trasfigurazione del decorso esistenziale, con le sue ripercussioni sulle esperienze di vita.

Quale fisionomia possiamo immaginare per la Morte, che trasforma in un istante gli individui nel ricordo che gli altri si portano dentro? lo scheletro alato nel film di Terry Gilliam Il Barone di Munchausen? il dialogo di Gassman con la “mietitrice della vita” ne L’armata Brancaleone di Mario Monicelli? la partita a scacchi di Max Von Sydow con la “signora del tempo” ne Il settimo sigillo di Ingmar Bergman?

In realtà i morti sono coloro che sono rimasti sconosciuti a chi non sa chi sono, e che tornano in vita nella psiche di chi si ricorda di loro: ciò che sarete voi noi siamo adesso… chi si scorda di noi, scorda se stesso…

 

Non parlare di Patrick Berhault (1957-2004) in un’analisi sul rischio sarebbe un errore imperdonabile, se si pensa che a motivarlo a intraprendere la “strada dell’alpinismo” fu proprio una strepitosa scivolata di 800 metri da una goulotte del Pelvoux, in Delfinato, dalla quale uscì per miracolo con la sola frattura del bacino. La seconda scivolata di 600 metri sulla parete del Taschhorn, causata dal crollo d’una cornice, gli fu invece fatale. Curioso è proprio il fatto che, dopo quella prima consistente esperienza di caduta, che a molti avrebbe fatto passare ogni voglia di recarsi in montagna, è seguita un’attività inarrestabile e sconfinata di ascensioni compiute in tutte le stagioni, la cui prerogativa sostanziale era l’incalcolabile e multiforme varietà di rischi e pericoli incontrati.

Durante la traversata delle Alpi (2000), gli capitò di trovare condizioni disagevoli su roccia più in autunno che in inverno, di affrontare difficoltà di misto che non aveva mai trovato, di uscire quasi in giornata da alte pareti invernali sulle quali preventivava di bivaccare e di considerare quasi come sentiero proprio il caso che inaspettatamente buttò all’aria tutta la sua pianificazione.

Di Patrick, l’infaticabile ragazzo dal fisico e dal carattere mediterraneo, si potrebbe dire che era il simbolo dell’’ammaestratore di rischi”, che conosceva e coi quali a un dato momento era certamente arrivato a dialogare ma, come accade a chi ha avuto tanto a che fare con l’istinto imprevedibile degli animali “feroci” e a un dato momento soccombe, anche a Berhault accadde qualcosa che proprio non immaginava d’incontrare.

Sono molti i casi di alpinisti solitari caduti più o meno prematuramente, ma a ben guardare pochi hanno commesso errori tecnici evidenti.

Derek Hersey (1957-1993) inglese trasferito in America dove viveva da “hippy” in una capanna piazzata su un albero, era assai stimato dagli arrampicatori statunitensi per l’etica delle sue solitarie integrali in Eldorado Canyon che affrontava da solo a vista sulle difficoltà massime che era in grado di salire in cordata (5.10 e 5.11) “exploit di grande volontà e auto-controllo che pochi hanno tentato di ripetere”. Fedele alle sue scelte etiche è deceduto precipitando in solitaria dalla Salathé-Steck al Sentinel Rock in Yosemite, pare a causa della pioggia che lo aveva sorpreso in parete – non si può dire che il suo modo d’arrampicare fosse pervaso da misticismo scriteriato.

Più appariscente ma meno limpido è stato Dan Osman (1963-1998), scalatore Navajo famoso per la spericolatezza delle sue solitarie integrali [5.11 e 5.12] e per le sue realizzazioni veloci a base di agilità e disinvoltura. Era anche specialista degli impressionanti salti nel vuoto noti come controlled free falling, che realizzava unendo più corde e dei quali deteneva il record (305 metri dalla Leaning Tower, Yosemite, lo stesso salto che gli sarebbe infine costata la vita per la rottura della corda per cause rimaste ignote). Dan fu duramente criticato sul web, forse per il fatto che i filmati delle sue salite ostentavano un atteggiamento spavaldo ed edonista, contaminato dalle moderne necessità mediatiche, che urtava la suscettibilità dei puristi, di coloro che trovano quelle difficoltà fin troppo impegnative già in cordata.

Anche del britannico Ben Heason, oltre alle difficilissime ripetizioni di vie in stile Hard Grit, colpisce la stridente continuità dello scalare in solitaria, slegato e senza conoscere i percorsi. Audace fin da bambino e abituato a controllare la paura che si prova spingendosi oltre i limiti fisici su itinerari al di sopra delle proprie potenziali capacità, in un’intervista afferma: “Quando caddi cercando di scalare un E6 a vista nel 1998, mi ruppi tutte e due le caviglie e assieme a loro la convinzione di essere invulnerabile“. Quell’esperienza lo portò a maturare l’idea di quanto fosse importante allenarsi per affrontare difficoltà anche più elevate “arrivando a rimanere calmo e spegnere le mie emozioni anche in situazioni audaci, per non lasciarsi condizionare dai pensieri di una possibile caduta“.

Mentre sto per concludere questa riflessione sul rischio, un amico mi informa della morte di John Bachar (1957-2009) formidabile arrampicatore della generazione successiva a Jim Bridwell, caduto da solo sulla falesia di Dike (Mammouth Lake). Negli anni Ottanta era considerato il più forte arrampicatore del mondo per i suoi concatenamenti in giornata (Capitan e Half Dôme in 14 ore con Peter Croft), e per i suoi leggendari runout. Bachar si schierò dichiaratamente contro lo spit, e in modo provocatorio, nel 1981, lanciò pubblicamente una sfida promettendo 10.000$ a chi fosse riuscito a seguirlo, da solo, per un giorno.

Come si possono interpretare le sue continue solitarie integrali? Forse a Bachar, considerato narcisista per le sua ostentazioni di bravura, non bastava più comunicare ad altri l’esempio delle sue realizzazioni eticamente ineccepibili ma avrebbe voluto sentirsi stimato anche dagli attuali arrampicatori che temono il carattere individualista dei solitari e il rischio che questi affrontano.

Dan Osman in free solo
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Considerando la sequenza storica delle sue imprese, vien quasi da pensare che sia stata proprio la provocatoria “sfida di Bachar”, alla quale tutti si erano probabilmente sottratti per non essere umiliati, a rivoltarsi contro di lui parandosi davanti all’improvviso, sotto la forma della fragilità esteriore di un appiglio spezzato o di quella interiore di uno mancato, una fragilità che lo ha fatto precipitare.

Le motivazioni di questi fuoriclasse sono complesse e variegate. Ma cosa li ha spinti a fare dell’esposizione al rischio una stabile ragione di vita?

Fatalismo e Fanatismo, trabocchetti della necessità d’approvazione
Per comprendere ancora meglio cosa induce ad attribuire al rischio la responsabilità degli incidenti, è necessario retrocedere a ciò che il rischio ha rappresentato alle origini della storia umana.

Ripercorrendo le fasi di questo processo vediamo che inizialmente rischi e pericoli sono visti come punizioni divine, che potremmo identificare in una cognizione sacrificale paleo-cristiana, seguite da quelle scaturite dalla pericolosità delle componenti naturali sconosciute del 700, trasformatesi nell’idea di conquista dell’800 e nella necessità di distinguersi del 900, approdando all’agonismo e antagonismo dei nostri giorni. Questi diversi aspetti nell’approccio con il rischio sono tuttora presenti e mescolati, e la cognizione sacrificale è ancora ben radicata. Possiamo intravederne le reminiscenze tanto nell’intento dell’alpinista di punta che cerca di mantenere lo standard del prestigio raggiunto quanto in un arrampicatore che s’arrabatta nel tentativo di crearsi una fama.

A metà anni ’70 tramite Gian Piero Motti si fece strada sulle pagine dell’Enciclopedia della Montagna l’interpretazione freudiana secondo la quale l’arrampicatore “purista”, inibito da traumi infantili, si costringe ad avere rapporti teneri e affettuosi (in arrampicata libera) con la Grande Madre che l’integrità della montagna rappresenta, mentre l’arrampicatore “trasgressivo”, violando (in arrampicata artificiale) questa imposizione, lotterebbe per ottenere la libertà.

Esibizionismo di Dan Osman
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Nel 1983, quando Motti scrisse su Scandere la monografia sulla Rocca di Caprie, la purezza che la libera rappresentava non aveva più valore di “prigionia edipica”, bensì di cammino di riavvicinamento alla indipendenza, visualizzata dalla figura paterna. Questa si affiancava, e non contrapponeva, all’artificiale estrema, confermata dalle notizie delle prime salite in Yosemite dove sembrava si fosse andati oltre l’A5 con rischi elevatissimi di caduta invalidante o mortale (come dire che a taluni nemmeno la “bolla protettiva” citata da Valerio Folco è servita da paracadute). Per cui l’artificialista non può più essere considerato trasgressivo, poiché in condizione di “rischio indiretto”, cioè delegato alla tenuta dei piazzamenti, pari o addirittura superiore a quella del liberista puro. Rileggendo a distanza d’anni quelle analisi, mi accorsi che quel “ribaltamento di valori” si rivelava una “giustificazione dei limiti”, che poneva la valenza del rischio ancora al centro del problema interpretativo.

Le sviste progressive che hanno caratterizzato questa rotazione di valori ci rivelano come nella spinta stessa a salire sia insita una marcata necessità d’essere approvati, dalla Grande Madre Orientale o dal Padre Occidentale poco importa. Dunque “fedeli” e “laici” sono entrambi giostrati, consciamente o meno, dal simbolismo di quelle figure referenziali, che invitano ad accettare (ormai ero lì e allora sono andato avanti lo stesso) o spingono a negare (non mi sembrava così difficile) i propri limiti.

Ma l’alpinismo è davvero “nobile come un’arte, bello come una fede” come sosteneva Guido Rey? Nel periodo in cui veniva promossa su Alp l’operazione “granito sicuro” (che negando le Tavole di Courmayeur sosteneva la riattrezzatura a spit degli itinerari del Bianco) Camanni considerava che “appendersi allo spit include un atto di fede” (scrisse fede, non fiducia). Mi chiesi che tipo di fede lo spit rappresenti visto che si tratta di un riferimento saldissimo esattamente contrario al comune intento delle religioni, per le quali il “contatto col divino” può avvenire solo percorrendo una strada d’incertezza – e il fatto di “affidarsi passivamente” a un infisso concorre ad “inibire” e non certo ad “attivare” la consapevolezza degli individui, che non sta nel rischio “fine a se stesso” ma nella scelta responsabile d’affrontare l’incertezza.

Dal Dogma al Culto dell’Obbligo
Oggi la tipica “mentalità prevenuta” dell’uomo della strada, che vede da sempre alpinisti e rocciatori come individui dalla “mentalità spavalda”, s’è trasferita nella maggioranza degli arrampicatori. Senza andare tanto lontano la possiamo riscontrare nel marasma dei pareri che alcuni accademici hanno espresso sull’Annuario del CAAI 2007-2008; volendo visualizzarne in sintesi gli estremi potremmo definire: retro-etici quelli allineati a Manrico Dall’Agnola, che mette in conto con pacatezza cavalleresca, velatamente romantica, il “diritto al rischio” e pseudo-etici quelli che si allineano a Fabio Palma, che sostanzialmente ritiene, con “solo quattro spit in Wenden”, che il rischio sia adattabile alle capacità geo-tecniche di salita.

Ho l’impressione che l’ideologia degli infissi “a distanza obbligata”, per il fatto di promuovere regole selettive basate esclusivamente su mezzi tecnici “innaturali”, sia la testimonianza di un’antietica paradossale, per il fatto che non è possibile realizzare una “difficoltà obbligata” se questa è già insita nello stato di compattezza della natura verticale. Si può solo inventare una Difficoltà Alterata che, disancorata dal confronto con l’ordine naturale, si rivela illusoria rispetto alle possibilità effettive d’ognuno.

L’arrampicata geotecnica a “infissi distanziati”, cui oggi molti guardano come etica definitiva, è retaggio della trasformazione del fatalismo d’un dogma, che invita ad accettare conseguenze inevitabili, in fanatismo d’un culto, che spinge a obbedire ciecamente alle conseguenze. Ecco perché la dipendenza dal culto della sicurezza geotecnica, che assolve dalla responsabilità di rischiare, diventa un ottavo elemento configurativo del rischio.

John Bachar nella sua storica free solo di Butterballs (5.11c), Yosemite
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L’attribuzione del rischio al “capro espiatorio” della compattezza
II fatto di non aver approfondito a sufficienza la valenza del rischio nel corso del tempo, ha fatto sì che le componenti naturali di instabilità e compattezza della roccia venissero considerate come veri e propri capri espiatori, tracimati dal “pensiero religioso” a quello laico.

Se è vero che la roccia instabile è evitata poiché ritenuta esteticamente “brutta” per l’aspetto che mostrano le pareti con quel tipo di consistenza, l’attrattiva che quella compatta esercita è difficilmente evitabile per il fatto di essere garanzia di “saldezza degli appigli” e di “bellezza dei passaggi”.

Input di questo tipo hanno creato un malinteso portando a pensare che fosse possibile sradicare sempre più e meglio una situazione di rischio da un contesto come quello della natura verticale.

Questa concezione contraddittoria è occorsa a trasferire la “responsabilità” di rischiare dell’uomo alla “compattezza” della roccia, un vero e proprio alibi necessario a giustificare l’incapacità umana quando agisce in modo pericolosamente desensibilizzato – per certi versi simile a quello della categoria di escursionisti, arrampicatori e alpinisti che “agiscono” senza comprendere a fondo i luoghi nei quali si recano, poiché ci vanno solo per raccontare che hanno fatto o per dire d’esserci stati, piantando la bandierina delle realizzazioni sulla sommità delle proprie ambizioni (alla stregua di inquieti e insoddisfatti vacanzieri ai quali arrampicatori e alpinisti si sentono da sempre superiori). Pensare che sia possibile sradicare il rischio attrezzando il più possibile la natura verticale tramite stabilissimi infissi, rappresenta la realizzazione d’una idea di controllo insensata proprio perché non si può eliminare con la tecnica ciò che non è una “componente fisica” ma è un “elemento esistenziale” che si modifica costantemente nel corso delle esperienze e proprio per questo inestirpabile dalla natura verticale.

Patrick Berhault
Patrick BERHAULT La Grande Traversée des Alpes en 2001
L’idea che ha spinto ad attrezzare prima a spit e poi a infissi geotecnici i settori delle pareti con la scusa di renderle sicure e fruibili a una maggioranza di utenti, ha portato ad aumentare una certa possibilità di incidente, almeno quando queste siano soggette al pericolo ricorrente di caduta di massi. Ci si deve rendere conto che tante pareti non sono propriamente strisce di roccia circoscritte da spaziose radure, ma pareti che non potranno mai diventare sicure per via delle caratteristiche territoriali che le sormontano, come settori parzialmente instabili o boschi cedui soggetti a cedimenti e dislocazioni di pietre dopo giorni di piogge intense o di forte vento.

La frequentazione contribuisce a “pulire” una parete, ma personalmente, gli unici sassi che ho schivato anni addietro furono al seguito di cordate che salivano lungo gli itinerari classici “perfettamente attrezzati” sulle pareti del Sarca o sulle falesie “super equipaggiate” di Giazzima, Lariosauro, Pala del Cammello, Scudi di Val Grande e sopratutto dello Zucco dell’Angelone e dell’Antimedale.

Patrick Berhault
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Il fatto di assicurarsi a un’inamovibile fila di infissi, mette in condizioni di “non essere consapevoli” della possibilità di colpire o essere colpiti e illusoriamente “pone al riparo” dalla necessità di saper affrontare situazioni di emergenza.

Tuttavia, i rischi riguardanti i tracciati attrezzati non sono soltanto quelli dovuti a circostanze esterne che ci si auspica di evitare: ricordo una volta, alla sosta d’uno di questi, al momento in cui decidemmo di calarci ci accorgemmo che nessuno era assicurato. Alle soste di un itinerario poco ripetuto, dov’è necessario rafforzare i punti di fermata o lungo una parete mai percorsa dove questi vanno interamente realizzati, non sarebbe mai accaduto un fatto del genere, perché la costante d’una simile salita sarebbe stata un’attenzione completa, anche e soprattutto a questi aspetti. Ecco perché la “messa in sicurezza” della roccia non coincide affatto con l’eliminazione del rischio.

Prima o poi si dovrà considerare che il fatto di indurre a recarsi in montagna con quel tipo d’approccio rischia di essere l’abbaglio d’una pericolosa chimera: l’utopia di sentirsi protetti e alleggeriti dalle responsabilità grazie alla tecnologia. Si dovrà tener conto delle conseguenze talvolta gravi che questo comporta, per il fatto che incentivare per promuovere, nell’ambito di attività come l’arrampicata e l’alpinismo, significa spingere una maggioranza inconsapevole di incapaci all’orlo emulativo d’una minoranza di esperti spesso a loro volta poco consapevoli dei molteplici elementi che costituiscono il rischio.

Si può dunque riscontrare nella superficialità con cui si affrontano tracciati attrezzati, caratterizzati da rischio residuo non completamente eliminabile, un nono elemento configurativo del rischio, e nell’attenzione affievolita dall’abitudine di manovre scontate, un decimo elemento configurativo del rischio. Concludo questa mia analisi dicendo che la messa a fuoco dei vari possibili fattori che configurano il rischio non è un punto d’arrivo che ne ha imbrigliato definitivamente la valenza, ma solo l’identificazione momentanea di ciò che più ha dato un senso a questa serrata riflessione, il fatto d’aver scoperto un mosaico di elementi significativi dietro allo spauracchio indecifrabile che inizialmente ne schermava la fisionomia indefinita.

Volendo esser sinceri, crea un certo sgomento accorgersi che il rischio non è propriamente come una tormenta di neve che cancella le tracce del nostro passaggio, bensì una sentinella invisibile che ci accompagna nel percorso d’attraversamento dell’incognita per avvertirci quando la “geografia delle certezze” sta diventando “planimetria dell’imprevisto” di volta in volta mai uguale a se stesso.

 

 

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Nel 1999 Ivan Guerini ha concepito il marchio ZONE NO SPIT (o NO SPIT ZONE), per la preservazione della
Natura Verticale. Ivan si adopera perché questo marchio sia “storicizzato”, perché legato sapientemente alle pareti percorse e ancora da percorrere.

Si ritiene che anche questo post a sua firma debba riportare questo logo, nella speranza che stimoli una maggiore apertura di coscienza al riguardo della Natura verticale.

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Il rischio, sentinella invisibile – 2 ultima modifica: 2016-04-09T05:22:09+02:00 da GognaBlog

3 pensieri su “Il rischio, sentinella invisibile – 2”

  1. 3

    mi piace il suo commento Giorgio: contiene riflessioni e provocazioni interessanti. Il “Guero” ed il “Gogna” sono due figure da libro di storia, e come tali le loro riflessioni giungono agli “esperti” (pronti a criticare ferocemente) tanto quanto agli “inesperti” (pronti a mettersi nei guai per emulazione). Per questo credo che siano costretti a parlare di “mostri sacri”, condannati ad indicare le “stelle” nel tentativo di raggiungere le “formiche”. Devono riportare fatti certi e dilungarsi nei dettagli per non essere fraintersi o strumentalizzati: tant’è vero che spesso sono etichettati come eroici e logorroici rompiballe. (…ma non è la verità). “scarsamente allenato, poco capace tecnicamente, costretto a pareti instabili” credo sia la mia perfetta descrizione, così come di quella di molti miei amici. Nonostante questo ho arrampicato spesso con Guerini ed altrettanto spesso ho discusso con lui di come parte delle nuove generazioni non si rispecchino nella visione attuale di arrampicata o alpinismo. In questo suo scritto alcune di queste “bugie” vengono trasversalmente messe a nudo. Potrebbe raccontarti di nuove vie trad aperte con ragazzini alle prime armi in posti straordinari e terribili, ma non spetta a lui farlo. Spetta alla nuova generazione emanciaparsi, mettersi di traverso, prendere posizione. Viviamo un alpinismo in cui il rischio viene negato a favore di un approccio commerciale e democratico della montagna. Parlando di sicurezza si piazzano fittoni in vie di IV, trasformandole così in trappole mortali per gente ignara che finisce il week-end sull’elicottero giallo con le ossa a pezzi. Mesi fa in antimedale un signore di 40 anni è piombato giù da Istruttori, Guerini era in incognito su delle roccette sul lato opposto della valle ed ha osservato, affranto, tutto il soccorso con l’elicottero. Se non ci fossero quei fittoni ogni 5 metri la frequentazioni di una signora Via come quella calerebbe drastricamente. Oggi invece te la “vendono” come una entry level per principianti, quasi da sfigati ( …e poi ti fai 10 metri di volo sui terrazzini). Tu non hai idea di come lo facciano arrabbiare cose simili, ma sta a noi “scarsamente allenati, poco capaci tecnicamente, costretti a pareti instabili” prendere posizione contro queste bugie. “Il rischio sentinella invisibile” puoi tradurlo come “Gente, datevi retta ed iniziate ad ascoltare voi stessi”. Cosa vuoi chiedere di più al buon Guerini? Dopo un’intera vita spesa rispettando una ferrea etica quanto deve ancora esporsi? Giorgio, tu hai in buona misura ragione, ma non è con lui che devi incazzarti 😉

  2. 2
    GIANDO says:

    Il tuo commento offre degli interessanti spunti di riflessione.

  3. 1
    Giorgio says:

    Interessante disanima del rischio. Mi hanno colpito un paio di cose: che a rappresentare il rischio siano gli esempi di alcuni “mostri sacri” qualcuno morto nei suoi esercizi; che il rischio possa essere rimosso dalla qualità della roccia: si parla di alibi della compattezza. Alla luce di queste due questioni mi sembra che Guerini tratti il tema con un punto di vista degli Dei quasi che il normalissimo frequentatore della montagna, scarsamente allenato, poco capace tecnicamente, costretto a pareti instabili, non possa essere sfiorato dal rischio e da tutta la filosofia che lo circonda. Avrei letto più volentieri questo saggio senza i nomi altisonanti che sembrano perpetuare l’idea dell’Alpinismo eroico, che a parole tutti sbeffeggiano (lotta con l’Alpe no grazie), che invece “tira” ancora sia per indurre all’emulazione che per motivi commerciali: tutto ciò è molto caiano e puzza di stantìo. Dico questo nonostante sappia che Guerini sia su posizioni critiche rispetto al CAI; però sia lui che il titolare di questo blog e tantissimi altri sono ancora invischiati nel retaggio culturale di questo Alpinismo nato dall’esplorazione e morto nella conquista. Nonostante tutti i movimenti culturali cresciuti in questo mondo (vedi il bel libro di M. Bursi “Flash di alpinismo”) non si è ancora riusciti a spostare l’attenzione dall’Uomo e dai suoi “tiramenti”. Comprendo che la montagna sia un ottimo palco per far crescere personalità capaci di cose incredibili, lo sono però anche tutti gli altri ambienti fisici in cui si esercita l’uomo: di navigatori solitari, astronauti, camminatori instancabili, volatori, funamboli eccelsi sappiamo bene. Gli esploratori che si appagano della scoperta dell’ambiente, delle emozioni semplici, gente che oggi è maggioranza non li si caga nemmeno di striscio!
    Eppure anch’essi sono esposti al rischio.

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