Intervista ad Alessandro Gogna per Dolomiti Bellunesi

Intervista ad Alessandro Gogna
di Marco Conte
(pubblicato su Dolomiti Bellunesi, estate 2006)

Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(2)

In una tua intervista su internet ho letto questa tua affermazione in merito a un tuo viaggio in Asia del 1974-75: «Un viaggio dove ho imparato la quasi totalità delle cose che oggi ritengo ancora importanti». Qual è secondo te, per un alpinista, il valore del confronto con altre culture? È importante per un alpinista essere anche viaggiatore?
L’alpinista, per il solo fatto che si sposta, è un viaggiatore. L’importante è essere viaggiatori di un certo tipo piuttosto che di un altro. Se io vado in vacanza alle Seychelles sono un viaggiatore interessato al mio piacere e relax personale, voglio il caldo sulla pelle, il salmastro nell’aria, un po’ di colori intorno e magari buona compagnia. Tutte queste belle cose non sono disprezzabili, ma col poco tempo che abbiamo a disposizione per viaggiare, io preferirei viaggiare veramente, quindi entrare in contatto con altre culture oppure andare a fare un’avventura della madonna.
Nel mio caso del ‘74 e ’75 ho vissuto un’esperienza davvero particolare. Ero nel posto giusto al momento giusto, in quel momento della propria vita in cui sei più portato al cambiamento. Ammesso e non concesso che io sia “saggio”, i mezzi per esserlo probabilmente mi sono stati dati alla nascita, ma ho scoperto di averli solo in quell’occasione.
Potrei riassumere quest’esperienza con una frase, ma non so quanto possa essere capita: “in quei mesi ho realizzato, completamente e nel profondo, che il mio essere (e ovviamente anche quello altrui) era ed è fatto di una parte emersa e una parte nascosta, la cui esplorazione può diventare una missione nella vita”. Che esistesse l’inconscio lo sapevo anche prima, però era pura teoria. Quando ho avvertito che tutto ciò che vivevo e vedevo laggiù era semplicemente lo specchio di quello che mi succedeva dentro, quella è stata la svolta. E da allora ho avuto la rotta tracciata, anche in mezzo alle tempeste.

Palazza (Dolomiti Bellunesi), pilastro sud, 1a ascensione (19 maggio 1974). Alessandro Gogna sul passo chiave di artificiale.

Nel 1970, con l’ascensione sulla parete sud della Seconda Pala, hai inaugurato la seconda grande stagione alpinistica sulle Pale di San Lucano dopo quasi 40 anni di vuoto assoluto dalle precedenti imprese di Tissi, Comici e Detassis. Come sei arrivato su questo gruppo montuoso, e cosa ti attirava maggiormente di esso?
Bisognerebbe domandare agli altri come hanno potuto disinteressarsi o non accorgersi… Le Pale erano lì, certamente non invisibili. Per me è stato naturale, mi sono innamorato della conformazione, dell’isolamento.

C’è una vetta o un gruppo montuoso in particolare che consideri la montagna della tua vita?
No, a volte però mi dispiace. Questo è certamente il risultato d’essere comunque nato in città e di avere imparato la montagna un po’ qui e un po’ là. A volte considero le Alpi Apuane come il primo amore, a volte le Dolomiti in generale: ma non posso dire che sono le montagne della mia vita.

C’è un alpinista del passato, o magari anche più di uno, che consideri come un modello?
Sì, certamente più d’uno. Tanto per fare qualche nome Edward Whymper per la sua tenacia, Angelo Dibona che esportò le capacità dolomitiche nel resto delle Alpi, Hans Dülfer, Giovan Battista Vinatzer, Riccardo Cassin, Alvise Andrich, Mathias Rebitsch, Fritz Wiessner, Hermann Buhl e ovviamente Walter Bonatti, Yvon Chouinard, Royal Robbins. Pur fermandomi agli anni ’50, questi sono solo le punte, certamente ho dimenticato molti.

So che l’anno scorso sei stato a scalare sulle Cime di Pino (me l’ha raccontato Adriano Roncali custode del rifugio Casera Ditta, che conosco) nella valle del Vajont. In posti come questo è ancora possibile al giorno d’oggi un alpinismo di ricerca ed esplorazione?
In posti come quello è SOLO possibile un alpinismo di ricerca ed esplorazione. Ed è il motivo per cui mi piace così tanto andarci… Nelle Alpi ce ne sono anche molti altri posti così, ma le Dolomiti d’Oltrepiave (assieme alla Schiara, ai Monti del Sole), in generale, sono davvero speciali per questa caratteristica.

Il progresso nella tecnica dei materiali rappresenta un’opportunità o un ostacolo per lo sviluppo dell’alpinismo?
È un’opportunità certamente, a volte rischia di essere però anche un ostacolo. Non credo esista un qualsiasi oggetto o argomento monolitico ed inequivocabile. Ogni cosa si presta a un doppio uso, a una doppia interpretazione. Prendi lo spit: da una parte ha favorito lo sviluppo di capacità arrampicatorie davvero impensate, dall’altra, se usato a sproposito, rischia di eliminare completamente l’avventura, e quindi l’essenza stessa dell’alpinismo.

Sempre a proposito dell’alpinismo di ricerca, mi ha colpito in modo particolare una tua affermazione secondo cui esso culmina con l’esplorazione di se stessi, senza pretesa di successo. Tutto ciò significa che non dobbiamo mai stancarci di imparare qualcosa di nuovo sul mondo, e su noi stessi?
La novità di quest’affermazione, se c’è, è di certo nella seconda parte, quando dico “senza pretesa di successo”. L’esplorazione di noi stessi (come dicevo anche prima) va avanti per tutta la vita: nel momento in cui avessimo “successo”, essa, per definizione, si potrebbe considerare terminata. Un’ipotesi di questo genere è davvero da evitare, perché la ricerca in noi stessi è così importante da far perdere interesse in tutto il resto. Se io non ricerco più (perché considero d’essere arrivato), questo “resto” precipita nel buio. È quasi insolente pensare d’essere arrivati, una specie di suicidio spirituale.

Parlando di alpinismo extraeuropeo, perché al giorno d’oggi molti continuano ad affollare gli Ottomila, quando esistono miriadi di cime minori ancora inviolate?
Perché a volte c’è difetto di fantasia e voglia di gloria a buon mercato. Comunque tengo a precisare che quest’affermazione è meno vera di quanto si possa pensare. Leggere le riviste straniere di alpinismo per credere. Sono centinaia le cordate che, senza far parlare molto di sé, vanno in giro per Settemila e Seimila. Ogni tanto, ma proprio ogni tanto, qualcuna si becca un “piolet d’or”. È un peccato che il grosso della gente conosca solo l’esistenza degli Ottomila e quindi, specialmente in Italia, si parli poco di queste montagne. Il fatto che su Internet esistano siti dedicati ai maggiori Ottomila e non ad altre montagne, la dice lunga in proposito.

Si dice che tra gli alpinisti sia spesso presente una componente di auto-affermazione, competizione, talvolta di narcisismo. Si tratta solo di un difetto, oppure la cosa ha anche una valenza positiva?
Io credo abbia una valenza positiva. Di certo io l’ho provato, e non mi pento. Dovrei pentirmi se non me ne fossi accorto in tempo, appunto quando era tempo di cambiare, un momento che viene per tutti e cui bisogna obbedire, a volte pena la morte o un brutto incidente. Questo non vuol dire che, privi di narcisismo, si sia al riparo dai rischi, però aiuta.
Auto-affermazione e competizione sono fondamentali per un giovane, a volte è l’unico linguaggio che capisce.

Sulla scia della domanda precedente, Ettore Castiglioni era invece solito affermare: «Non si arrampica per avere un applauso». Sei d’accordo?
Sono d’accordo, ma non è sempre vero. Piaz, quando salì la Punta Emma da solo per la sua fessura, arrampicò per l’applauso, e fece ugualmente una grandiosa impresa. Bisogna essere un po’ più generosi nel giudicare chi è giovane…

La montagna serve a migliorare le persone? Oppure è vero il contrario, che in montagna ci portiamo dietro tutte le nostre abitudini positive e negative?
È vero che in montagna ci portiamo dietro le nostre abitudini positive e negative, che non sono altro che la manifestazione esterna del nostro “atteggiamento” (Weltanschauung). Per migliorare occorre averne la volontà ferrea: la cosa può essere tranquillamente tentata altrove, anche in città, e mai la montagna potrebbe garantire il successo. La montagna perciò non è né necessaria né sufficiente. Chi decide di migliorare in montagna è più vicino, nel suo cammino, alla problematica di scegliere continuamente tra vita e morte (e questo indipendentemente dal livello di difficoltà o di rischio, basta pensare a quante disgrazie sono successe sul “facile”).

Carlo Zonta e Alessandro Gogna nella prima ascensione della parete sud-ovest della Palazza, Monti del Sole, Feruc (19 maggio 1974)

Hai spesso ricordato Gian Piero Motti come uno dei tuoi maestri di vita. Qual è la componente che ritieni più significativa nel suo insegnamento?
Oltre che un amico egli fu, sì, anche un maestro. Per essere davvero brevi, nel senso che questo potrebbe essere un discorso davvero lungo, la componente più significativa è l’esempio che ci ha dato, di ricerca dentro noi stessi. Purtroppo questo lo ha condotto all’estrema conseguenza, un epilogo che certamente non è e non deve essere uguale per tutti.

Cosa significa secondo te, al giorno d’oggi, essere un editore di letteratura alpinistica? Come mai si continua a parlare di “libri di montagna” e non di libri e basta? I libri di montagna si libereranno mai da quest’etichetta di “prodotto di nicchia”?
Francamente non lo so. Sono però portato a pensare che molti libri “di montagna” in realtà non lo siano affatto, magari la storia li rivaluterà, al di là delle artificiali classificazioni che lo stesso mercato impone. Come possiamo qualificare “di montagna” libri come quelli di Lammer, o di Whymper, o di de Saussure? Basta aspettare un po’ di tempo ancora… forse.

Esiste la possibilità di uno sviluppo turistico delle “terre alte” diverso dal turismo di massa?
Sì, è dimostrato da tante stazioni turistiche che hanno scelto, di solito consapevolmente, questa strada. Ma tutto dipende dagli abitanti di quei posti, che eleggano amministratori validi e lungimiranti, cosa di questi tempi assai rara.

Una domanda per un alpinista che ha girato a fondo sia le Alpi Orientali, sia quelle Occidentali. È vero che “orientalisti” e “occidentalisti” si disprezzano a vicenda? Se sì, perché?
Curiosa, questa domanda. Non me l’aspettavo. Da quando sono alpinista io non credo sia mai stato vero. Prima forse sì, perché l’ignoranza è sempre cattiva maestra, oppure perché l’invidia è spesso presente nelle manifestazioni di disprezzo.

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Intervista ad Alessandro Gogna per Dolomiti Bellunesi ultima modifica: 2018-11-01T05:17:05+01:00 da GognaBlog

2 pensieri su “Intervista ad Alessandro Gogna per Dolomiti Bellunesi”

  1. 2
    Giancarlo Venturini says:

    Un buon racconto , “Alessandro ” parole che si leggono sempre con grande interesse…!  Grazie..Saluti

  2. 1
    emanuele menegardi says:

     

    Ogni cosa si presta a un doppio uso, a una doppia interpretazione. Prendi lo spit: da una parte ha favorito lo sviluppo di capacità arrampicatorie davvero impensate, dall’altra, se usato a sproposito, rischia di eliminare completamente l’avventura, e quindi l’essenza stessa dell’alpinismo.

    Pienamente condivisibile!!

    Ma basta guardare molte delle ultime realizzazioni sulle Dolomiti, dalle Pale di San Martino alle Alpi Feltrine o in Civetta, per accorgersi di quale sia il destino dell’Alpinismo.

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