La storia dell’alpinismo di Gian Piero Motti

Nonostante alcune imprecisioni che peraltro facciamo notare con le Note di Redazione, pubblichiamo questa valida recensione de La Storia dell’Alpinismo di Gian Piero Motti, Priuli&Verlucca Editori.

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)

La storia dell’alpinismo di Gian Piero Motti (RE 001)
di Stefano Gianni
(pubblicato il 1 maggio 2016 su http://lettoinpiazza.blogspot.it/2016/05/gian-piero-motti-la-storia.html)

Gian Piero Motti era davvero un bel personaggio: nato a Torino nel 1946 [l’anno della morte di Giusto Gervasutti, “il fortissimo”, colui che trasportò nelle Alpi occidentali la perizia tecnica maturata nelle Dolomiti in anni di pratica dell’arrampicata artificiale (1)], alpinista di vaglia in prima persona [diede buona prova di sé soprattutto sulle pareti della Valle dell’Orco (2)], fu un uomo colto e dai molteplici interessi. Oggi lo si ricorda soprattutto come l’animatore del Nuovo mattino, il movimento che portò nel mondo chiuso dell’alpinismo molti degli stimoli derivanti dalla contestazione delle istituzioni tradizionali fra gli anni Sessanta e Settanta, e ne favorì l’uscita dalle secche di un’ideologia fondamentalmente reazionaria. Eternamente preda di un’irriducibile inquietudine, Motti si tolse la vita nel 1983, ad appena 37 anni.

Edizione 2013

La sua Storia dell’alpinismo − pubblicata per la prima volta nel 1978 (3) e recentemente riproposta (4) con l’aggiornamento di Enrico Camanni riguardante gli sviluppi che questa disciplina ha conosciuto dopo quella data − è la seconda Storia di ampio respiro dedicata all’alpinismo mai scritta, dopo quella dell’inglese Claire-Éliane Engel, che però risale agli anni cinquanta del Novecento, parla esclusivamente dell’attività svoltasi nelle Alpi, ed è afflitta da una prospettiva smaccatamente “anglocentrica”.

Anche il ponderoso volume di Motti (conta in tutto più di 700 pagine) risente naturalmente dei paradigmi culturali dell’epoca in cui fu concepito; e tuttavia, al netto di alcune considerazioni tecniche inevitabilmente datate, l’approccio dell’autore appare ancor oggi perfettamente funzionale a un discorso sull’alpinismo coerente, dotato di solide basi teoretiche, e nello stesso tempo capace di accogliere tutte le suggestioni avventurose e di far risaltare il profilo di tutti i personaggi straordinari che il racconto delle imprese alpinistiche da sempre porta con sé.

Il rapporto tra l’uomo e la montagna è descritto sulla scorta di una visione della realtà che si vuole fondata soprattutto sui principi della teoria psicanalitica, ma che si nutre anche delle numerose e disparate letture di Gian Pietro Motti, in cui un ruolo di primo piano hanno senz’altro riflessioni di ordine antropologico, filosofico e sociologico.

Così l’autore considera come è certamente vero che l’uomo cominciò a guardare alle montagne e a scalarle in epoca illuministica (una volta venuti meno i tabù e le false credenze che lo tenevano lontano dalle vette), spinto principalmente da motivazioni di carattere scientifico; ma sostiene altresì che presto il piacere della scoperta, il brivido dell’avventura, il desiderio di conquista e il bisogno di libertà soppiantarono la scienza. Quest’ultima divenne sovente una semplice scusa per giustificare un’attività altrimenti priva di qualsiasi utilità materiale, e perciò scandalosa agli occhi di quella società borghese da cui provenivano i primi frequentatori delle montagne.

Ci fu infatti un’epoca in cui l’alpinismo fu appannaggio esclusivo dei cittadini benestanti; solo in seguito i “montanari” – cacciatori di camosci o cercatori di cristalli inizialmente utilizzati come semplici portatori o come “accompagnatori” da chi andava per monti (con un ruolo subalterno o ancillare rispetto a quello dell’alpinista di turno) − presero coscienza delle proprie capacità e, oltre a continuare a lavorare come guide al servizio dei cittadini, cominciarono a esplicare in proprio un’attività d’avanguardia di esplorazione delle cime e delle pareti dei rilievi fra i quali vivevano.

Edizione 1994

Si dovrà comunque attendere la fine della Grande Guerra per vedere anche i ceti meno abbienti avvicinarsi definitivamente alle montagne, quando l’alpinismo divenne per molti – che fossero cittadini o valligiani – un mezzo di riscatto al cospetto delle miserie quotidiane.

Solo a partire dal secondo dopoguerra, infine, si assistette a una specializzazione e a una sorta di professionalizzazione dell’attività alpinistica, dapprima con l’accesso al mestiere di guida di praticanti provenienti da zone urbane non montagnose, poi, in anni a noi più vicini, con l’avvento degli sponsor e (dagli anni Settanta) con la trasformazione dell’alpinismo in una disciplina sportiva tout court, capace di suscitare perfino un grande interesse mediatico.

In questo quadro evolutivo, l’aspetto più interessante del racconto di Motti è a mio parere l’articolata e problematica ricerca di un criterio di valutazione omogeneo delle molte celebri scalate effettuate in epoche diverse su terreni differenti da uomini che potevano contare sul supporto tecnico di materiali all’inizio semplicissimi e poi via via più sofisticati.

In sostanza, Motti ritiene in fondo fallace ogni tentativo di classificare in maniera assolutamente oggettiva le difficoltà incontrate dagli alpinisti che effettuarono quelle imprese, perché “le vere difficoltà sono sempre di carattere psicologico”, e i primi salitori di una parete si trovano sempre a dover abbattere una “barriera” mentale con cui i ripetitori non dovranno più confrontarsi.

Edizione 1977

Questo non vuol dire che le considerazioni prettamente tecniche vengano messe in secondo piano in questo libro; anzi Motti, da alpinista esperto qual era, non manca mai di prestare un’adeguata attenzione, oltre che alla filosofia che ispirò ciascuno scalatore, al suo stile, alla sua “creatività”, alla sua abilità su rocce di diverso tipo e su ghiaccio, alla capacità di servirsi in maniera adeguata degli strumenti che la tecnologia della sua epoca gli metteva a disposizione.

In tal modo si riescono a inquadrare nella maniera migliore e senza pregiudizi le imprese sia dei cultori dell’arrampicata artificiale sia dei “puristi” difensori dell’arrampicata libera, individuando in ciascun ambito coloro che seppero eccellere nel filone che avevano scelto.

Trovano così il giusto risalto i protagonisti delle diverse fasi dell’evoluzione della disciplina, che a volte vengono presentati come veri e propri miti in pagine assolutamente memorabili: da Coolidge a Whymper, da Georg Winkler a Tita Piaz (il celebre “Diavolo delle Dolomiti”), dal mitico Mummery ad Angelo Dibona, da Dülfer a Preuss, da Emil Solleder a Emilio Comici, da Gian Battista Vinatzer al grande Riccardo Cassin (“il risolutore”). E poi Giusto Gervasutti (“il Michelangelo dell’alpinismo”), Pierre Allain, Gaston Rébuffat, l’insuperabile Hermann Buhl, per arrivare fino a Walter Bonatti, a René Desmaison e a Reinhold Messner (senza dimenticare i molti “eroi sconosciuti” che Motti non manca mai di richiamare).

La lettura è piacevole, coinvolgente, interessante sia per gli appassionati di alpinismo, sia per coloro che guardano a questa pratica solo dall’esterno, con la curiosità dei profani. Facile è immedesimarsi nelle avventure che Motti racconta, facile commuoversi di fronte a talune figure scolpite dalle sue parole, dal giro delle sue frasi non sempre del tutto precise, ma ogni volta estremamente efficaci.

Note della Redazione
(1) Giusto Gervasutti negli anni di prima pratica dolomitica aveva perfezionato la sua tecnica di arrampicata libera, non artificiale. Gervasutti trasportò questa tecnica sulle Alpi occidentali, dove peraltro fece sempre uso moderatissimo dell’artificiale.
(2) Motti è stato alpinista di vaglia, ed è noto soprattutto per salite come la sua prima solitaria al Pilier Gervasutti del Mont Blanc du Tacul. Senza salite di questo genere mai avrebbe potuto essere stato ammesso (come fu) al Club Alpino Accademico Italiano.
(3) L’anno esatto è il 1977, Istituto Geografico De Agostini. L’opera apparve (ulteriori due volumi) a corredo finale dell’Enciclopedia della Montagna (in otto volumi) e con il titolo Storia dell’alpinismo e dello Sci, di Gian Piero Motti e Guido Oddo.
(4) Il titolo fu ripreso nel 1994 dall’editore Vivalda, pubblicato in due volumi nella collana I Licheni. Nel 2013 ci fu la ristampa di Priuli&Verlucca (nel frattempo subentrato a Vivalda nella proprietà de I Licheni) in un unico volume.

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La storia dell’alpinismo di Gian Piero Motti ultima modifica: 2018-06-03T05:54:34+02:00 da GognaBlog

11 pensieri su “La storia dell’alpinismo di Gian Piero Motti”

  1. 11
    Antonella says:

    Ad intuito, ma anche alla luce dei miei studi nel campo di psicologia analitica, non posso che quotare Fabio Bertoncelli e Massimo Mila

    “Motti trasferisce su Gervasutti le proprie generose inquietudini [diciamo i propri travagli esistenziali] scambiando per pessimismo cosmico quello che era semplicemente il nobile distacco d’uno spirito non certo altero, ma naturalmente e semplicemente aristocratico”.

    L’analisi della personalità di Giusto da parte di Motti è senz’altro prima di tutto frutto di una proiezione all’esterno di sé, ( e proprio verso la  figura di  alpinista che più stimava e in cui più si identificava) delle proprie stesse inquietudini profonde esistenziali . Ma non è detto, non sempre e non del tutto, che un’ interpretazione proiettiva sia completamente fuori strada e lontana dalla realtà. Certamente Motti appare, dagli scritti ( e dalla scelta finale ), comunque più “tormentato” di Gervasutti, ma la diversa collocazione storica fa sì che a diverse epoche corrispondano modi diversi di vivere ed esprimere il “disagio”..

    E poi,comunque sia, non si tratta di dare un’etichetta negativizzante di “malattia/nevrosi” ecc che sminuisca in qualche modo il personaggio. Questo non nelle intenzioni di Motti, e di chi comunque ha ben presente che un po’ di “sana” inquietudine e “follia” è alla base di tutte le espressioni umane più fervide e creative, non solo nell’ambito dell’alpinismo.

  2. 10
    Alberto Benassi says:

    Sono d’accordo con Luca Visentini. Ma io ci andrei piano. Anzi mi asterrei proprio.

  3. 9
    Fabio Bertoncelli says:

    Jawohl, mein Führer.

  4. 8
    Luca Visentini says:

    A me sembra che si stiano azzardando un po’ di cazzate, qui, come in “Una storia di civile umanità”. Un po’ più di umiltà e di umanità non sarebbero male.

  5. 7
    paolo panzeri says:

    Alberto, non posso sapere i suoi perché e nemmeno mi interessano, ho detto solo il perché io lo stimo un poco come uomo, come alpinista non ci sono ancora arrivato.

  6. 6
    Fabio Bertoncelli says:

    Perché Gian Piero Motti si suicidò? Non posso dirlo con certezza, perché di lui conosco soltanto ciò che pubblicò e quanto ne scrissero gli amici. Tuttavia, qualche anno fa, dopo una rilettura di alcuni suoi brani, iniziai a riflettere sulla faccenda e ne uscí quanto potete leggere nel seguito.

     
    Cosí parlò Gotama
    “Gotama, il Budda, insegnava la dottrina della Ruota dei Desideri, alla quale siamo legati, ed esortava a spogliarsi di ogni passione e così senza desideri entrare nel Nulla, che egli chiamava Nirvana. Un giorno alcuni suoi discepoli gli chiesero: «Com’è questo Nulla, maestro? Tutti noi vorremmo liberarci da ogni passione, come ammonisci; ma spiegaci se questo Nulla in cui entreremo è qualcosa di simile a quell’unità col creato di quando si è immersi nell’acqua, al meriggio, col corpo leggero quasi senza pensiero; o quando si cade nel sonno, accorgendosi appena di avvolgersi nella coperta e subito affondando; se questo Nulla dunque è così lieto, un buon Nulla, o se invece quel tuo Nulla è soltanto un nulla, vuoto e freddo, senza significato».
    A lungo tacque il Budda, impassibile, ma poi sentenziò: «Alla vostra domanda non c’è risposta».
    Però alla sera, dopo che costoro se ne furono andati, il Budda sedette sotto l’albero del pane e a quanti non avevano posto interrogativi narrò questa parabola: «Non molto tempo fa vidi una casa. Bruciava, e già il tetto era lambito dalle fiamme. Mi avvicinai e vidi che dentro c’era gente. Dalla soglia li chiamai, incitandoli a uscire, e presto. Ma quelli davano l’impressione di non avere fretta. Mentre la vampa già gli strinava le sopracciglia, uno mi chiese che tempo facesse, se non piovesse per caso, se non tirasse vento, se fosse disponibile un’altra casa, e così via. Mi allontanai senza ribattere. Quella gente, pensai, deve bruciare prima di smettere con le domande. Amici, davvero, a chi sotto i piedi la terra non brucia a tal punto che sembri meglio qualunque cosa piuttosto che rimanere, a costui io non ho nulla da dire».
    Così Gotama, il Budda.”
     Questo apologo di Brecht serví come introduzione a “Zero the hero”, il piú stupefacente brano – se tale può essere definito – che mi sia mai capitato sott’occhio.

    L’autore fu il torinese Gian Piero Motti, alpinista attivo soprattutto nel decennio 1964-74, tanto bravo e coraggioso da avventurarsi appena ventitreenne sul Pilone Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, primo solitario nel luglio 1969. Scrisse una storia dell’alpinismo, poi divenuta famosa, in cui a tratti riversò la complessità della sua indole pensierosa. Di animo sensibile ma tormentato da dubbi e inquietudini esistenziali, a causa del temperamento instabile alternò entusiasmi e crisi profonde.
    Travolto dalla disperazione, morí suicida nel giugno del 1983. Non aveva ancora compiuto trentasette anni.
     … … …
    Amico lettore, accetta questo consiglio, che non è una bestemmia.
    Qualora ti prema la liberazione dello spirito, impara a riflettere sulla vita. Tuttavia, se ti è cara pure la serenità dei tuoi giorni, bada di non esagerare, perché potrebbe essere deleterio: sono cose troppo grandi per noi.
    In ogni modo, nessuno ha mai saputo venirne a capo, neppure i filosofi che via via si sono arrovellati il cervello nel corso dei secoli.

    E neanche Gotama c’è riuscito, checché ne dica.

    Forse sognare
    “Essere o non essere. Questo è il problema: se sia piú nobile sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi di una sorte iniqua oppure prendere le armi contro il mare di patimenti e combattendo disperderli. Morire, dormire: niente di piú. Un sonno e dire basta alle tribolazioni del cuore e alle altre mille sofferenze che la carne comporta. È da augurarsela una fine cosí, davvero.
    Morire, dormire, forse sognare. Ma qui sta lo spauracchio: ci frena il pensiero di quali sogni possano mai assalirci in quel sonno di morte, una volta lasciato il nostro guscio terreno. Ecco dunque che la paura ci spinge a continuare a reggere le pene di questo mondo.
    Perché patire i rovesci e gli scherni del destino, le angherie di un tiranno, i dolori di un amore infelice, le lentezze della legge, l’arroganza dei potenti e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando da sé ci si potrebbe dar quietanza con un colpo di pugnale? Chi accetterebbe mai di portare tanti fardelli, mugugnando e sudando sotto il peso della vita, se non fosse per l’angoscia di qualcosa dopo la morte – il regno ignoto da cui nessun viaggiatore è mai tornato – che ci trattiene e ci fa preferire i mali di qui piuttosto che volare verso altri di cui nulla sappiamo?”
     Cosí Amleto si smarrisce in cupe considerazioni durante il suo celebre monologo. Shakespeare, che ci parla attraverso il personaggio, era molto sensibile al tema del significato della vita: essere o non essere. Per quel che lo riguardava, Gian Piero Motti decise infine di imboccare la seconda strada.

  7. 5
    Alberto Benassi says:

    “Però io lo stimo un poco, perché quando ha capito che non era ciò che pensava e voleva essere, ha deciso di definirsi un fallito, coinvolgendo tanti più o meno come lui e poi il suo orgoglio, sempre molto forte da quelle parti anche se immotivato, gli ha fatto coraggiosamente porre fine a tutto.”

    vuoi dire che si è suicidato, solo  perchè come alpinista, non aveva le capacità che avrebbe voluto avere?

  8. 4
    paolo panzeri says:

    Alberto, ne ho detti alcuni, non voglio generare “affumicamenti” non tocca a me, ma di Messner,  Macchetto, Calcagno, per citarne altri 3 e  parecchi francesi, tutti  che bazzicavano in quelle zone, penso non si possa discutere.
    Se ci mettessi un poco Cerruti e Ravà magari qualcuno scenderebbe di livello. 🙂

    Poi io non sono uno storico e nemmeno uno scrittore o un professionista, mi piace solo scalare e pensare, oltre a conoscere gli alpinisti come uomini e donne, non devo mica viverci con l’alpinismo e tantomeno ne ho bisogno per sentirmi qualcuno.

    Alberto mi sono tolto dal cai e dall’acca (40 anni sono troppi)…. adesso sparo senza farmi problemi! 🙂
    E spero che qualcuno non pianga anche nel leggermi, non solo abitualmente in parete per farsi aiutare.
    Tempo al tempo! 🙂 E se ne avrò voglia.

  9. 3
    Alberto Benassi says:

    Paolo, quali erano quelli  “BRAVI”  dei suoi tempi?

  10. 2
    paolo panzeri says:

    Fabio, d’altronde Giusto non era Torinese, era il più bravo e di gran lunga il più bravo da quelle parti. Ne han fatto un loro mito, anche nelle sQuole.
    Adesso proprio li faccio inquietare, ma non dico falsità, magari tiro un po’ la corda.
    Il grande Motti, così decantato e ora filmato, era di sicuro un bravo scrittore impegnato a capire qualcosa dell’alpinismo e come tale idolatrato e seguito da molti, ma come alpinista era lontano anni luce da quelli molto bravi dei suoi tempi. Però io lo stimo un poco, perché quando ha capito che non era ciò che pensava e voleva essere, ha deciso di definirsi un fallito, coinvolgendo tanti più o meno come lui e poi il suo orgoglio, sempre molto forte da quelle parti anche se immotivato, gli ha fatto coraggiosamente porre fine a tutto.
    Giusto è una roba, Motto, Grassi, e pochi altri anche, poi ho visto solo molto nulla borioso che vive spesso solo di invidie.

    La mia ovviamente è una mia opinione, ma talvolta si dovrebbero sfatare certi miti 🙂

  11. 1
    Fabio Bertoncelli says:

    In difesa di Giusto Gervasutti
    “La nevrosi di Gervasutti è perfettamente delineata: il suo disprezzo per il quotidiano, la sua incapacità di vivere la normalità, la sua incapacità di allacciare un rapporto stabile con una donna, il suo desiderio di infinito, il costante superamento di se stesso, l’impossibilità di vivere situazioni mediate, la paura della vecchiaia e della decadenza fisica, l’inconscio desiderio di morte. Chiunque legga le pagine di Gervasutti vi troverà con facilità tutti questi elementi (1).
    […] Si potrebbe dire che nel suo tentativo di fuga dal reale egli giunge alla paranoia [Gervasutti paranoico?].
    […] Ma Giusto aveva la tempra del lottatore, era del segno dell’ariete e quindi non era facile alla resa [qui si entra nell’astrologia…]. Giusto aveva lo spirito di un martire, sentiva il soffio della vocazione, avrebbe potuto essere un santone indiano [sic!].
    […] Insomma è tutto un quadro fin troppo chiaro, in cui figure come quella della donna-madre e donna-amante trovano uno spazio ben definito. Sarebbe fin troppo facile, dunque, giungere alla conclusione che l’alpinista sovente è un maschilista, un fallocrate [Gervasutti fallocrate?], un timoroso di castrazione [addirittura]. Egli ama e odia la donna perché ha paura della donna e teme la femminilità. Egli non accetta la femminilità che è in lui e nemmeno quella che gli è esterna.”
    (Gian Piero Motti, La storia dell’alpinismo)

    Per una volta sono in totale disaccordo con quanto scritto da Gian Piero Motti. Si tratta di farneticazioni tanto assurde da scadere nel grottesco. Massimo Mila – evidentemente un signore – si limita a ribattere che è “stranissima per chiunque abbia conosciuto quell’uomo straordinariamente sereno ed equilibrato che fu Giusto Gervasutti, l’immagine che qui se ne fornisce, come di un nevrotico, incline alla malinconia, «lacerato dalle contraddizioni», e tormentato da un «desiderio di infinito» che lo rendeva incapace di vivere la normalità, insomma: «un dio caduto dal cielo e insoddisfatto di trovarsi uomo»! […]
    Motti trasferisce su Gervasutti le proprie generose inquietudini [diciamo i propri travagli esistenziali] scambiando per pessimismo cosmico quello che era semplicemente il nobile distacco d’uno spirito non certo altero, ma naturalmente e semplicemente aristocratico”.

    (1) Io proprio tutti non li ho trovati, e quelli che ho trovato non mi sembrano sintomi di una nevrosi, tutt’altro. Per esempio non ho trovato l’inconscio desiderio di morte. La paura della vecchiaia e della decadenza è normale. Il desiderio di infinito è positivo: distingue l’uomo dal bruto. La volontà di superarsi si chiama ambizione e – se indirizzata nel verso giusto – è benefica per se stessi e, moltiplicata per milioni o miliardi di persone, anche per il progresso dell’umanità. E Gervasutti non fu affatto accecato dalla brama senza freni: ricordiamo che a causa della sua prudenza perse la corsa alle Jorasses, sia sullo Sperone Croz che sullo Sperone Walker.
    Per quanto riguarda le donne: erano fatti suoi. Ma se proprio vogliamo parlare dell’argomento, sappiate che Gervasutti non era affatto misogino. Era un ragazzo normale a cui piacevano le ragazze, ma che non voleva impegnarsi in una relazione stabile per non trascurare il grande alpinismo negli anni in cui era nel pieno delle forze (o forse, semplicemente, non ha mai avuto la fortuna di incontrare la compagna con cui trascorrere il resto della vita). Tutto qui.  

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