Le torri del vento

Penetrare nel mito. Respirare l’energia primordiale, annegare la propria essenza nelle forze scatenate della natura.
Ottocentomila chilometri quadrati di lande desolate. Al fondo, un angolo montuoso dove l’uomo non è ancora riuscito a fare da padrone.
Qui l’armonia ha una diversa scansione: la lotta. Non esiste sintesi, tutto è solo contrasto.

Giorni, settimane, mesi di tempeste infernali; poi, improvvisamente, in una luce abbagliante dai crudi contrasti, il simbolo si disvela a chi ha saputo pazientemente attendere. Allora fantastici picchi, ribellione suprema alla costrizione della forma, si stagliano nel cielo azzurrissimo.
Ma la tregua è breve, la chiave per accedere al regno del mistero deve essere trovata e usata in un tempo brevissimo: la lotta degli elementi ricomincia presto nella maniera più cruenta.

È la Patagonia. Un paese di immense pianure, un paese di laghi, di ghiacciai, di monti selvaggi, un miscuglio di paesaggio alpino, di America Latina e di Alaska.
Terray e Magnone prima, Bonatti e Mauri poi, vincitori delle Alpi negli anni ’50, ne ritornarono con un senso infinito di rispetto, facendo rimbalzare in Europa nomi di montagne dal suono misterioso e stregato: Cerro Fitz Roy, Cerro Torre, Cerro Moreno.
(A cura della Redazione di Scandere)

Foto: pedro Luis Raoota

Le torri del vento
simboli del superalpinismo
di Roberto Mantovani
(pubblicato su Scandere 1980)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(3)

Cerro Torre, urlo di Patagonia
Selvaggia zanna rocciosa che precipita da tutti i versanti per migliaia di metri, incrostata da una fragile corazza di ghiaccio, costantemente battuta dai venti che soffiano dal Capo ghiacciato di Patagonia, è diventata per gli alpinisti il simbolo del picco ghiacciato irraggiungibile. Questa piccola, ma non di meno formidabile montagna è giunta a incarnare nella sua totalità lo spirito del superalpinismo (Mountain Magazine IX/1972)”.

 

All’estremità dello sterminato Hielo Continental, circa tre miglia in linea d’aria a sud-ovest del Cerro Fitz Roy, si stende un incredibile, selvaggio complesso roccioso. È il gruppo del Cerro Torre. Rispettivamente a nord e a sud della vetta principale di 3090 m, altri due imponenti satelliti, la Torre Egger e il Cerro Adele.

Tremila metri di quota per una montagna non sembrano giustificare i toni di drammatica sofferenza dei suoi salitori. Per El Torre però, il discorso non vale. In Patagonia le montagne si misurano praticamente dal livello dell’oceano, non iniziano a prender forma dagli elevati altipiani andini. Poi, qui, più che mai è necessario prestare attenzione alla particolare ubicazione geografica del gruppo montuoso di cui si parla. Quest’angolo del continente americano, dove la distanza tra le coste orientali dell’oceano Atlantico e quelle occidentali del Pacifico è alquanto ridotta, è teatro di terribili e prolungati uragani che durano settimane e mesi, mentre «… il tempo bello è prezioso come l’acqua nel Sahara (Jim D. Bridwell – Cerro Torre alpine style in The American Alpine Journal ’80)». Venti quasi costanti, che soffiano dal Pacifico stracarichi di umidità, a velocità vicine ai 140, 150 km orari, sbattendo violentemente contro le granitiche guglie della Patagonia e scontrandosi con i venti freddi dell’Atlantico, danno luogo a prolungate tempeste che si susseguono senza tregua una dietro l’altra, al punto che «… molte spedizioni trascorrono qui due o tre mesi e non arrampicano affatto (Steve Brewer – Cerro Torre, alpine style in Climbing n. 58)». Le grandi precipitazioni di neve umida scaraventata dal vento si appiccicano indistintamente in fantasmagorici arabeschi sulle gigantesche placche di granito, sulle strutture aggettanti, sotto gli strapiombi più repulsivi o si accumulano negli instabili, caratteristici funghi di ghiaccio che incappucciano le vette. L’ambiente è selvaggio e strano, affascinante e terribile, certamente molto diverso dalle Alpi nella loro veste invernale e, sotto molti aspetti, più temibile e insicuro di quello delle grandi montagne himalayane. L’isolamento, i fortissimi venti che piallano la roccia, gli improvvisi rialzi di temperatura dovuti ai giochi di correnti d’aria che fanno crollare in gigantesche valanghe le instabili strutture di ghiaccio, le gelate improvvise che corazzano nel giro di pochi minuti un’intera parete, sono la scena in cui devono muoversi gli scalatori che vengono quaggiù per salire qualcuna delle innumerevoli guglie del gruppo.

Walter Bonatti

I primi tentativi
La storia alpinistica del Torre ha inizio nell’estate australe a cavallo tra il ’57 e il ’58, quando due spedizioni italiane ne tentano la salita. È l’epoca in cui, tanto sulle Alpi, quanto sull’Himalaya, i limiti dell’impossibile stanno velocemente restringendosi.

Da ovest arriva il gruppo guidato da Walter Bonatti e Carlo Mauri con l’intenzione di salire il versante occidentale, il più esposto per la sua posizione alla furia dei venti. Mauri ha già visitato precedentemente la Patagonia, è stato al Sarmiento con padre Alberto Maria De Agostini. I due sono consci della loro forza e della loro preparazione, probabilmente però sottovalutano l’ambiente. Superati gli imbuti ghiacciati della parte iniziale del versante ovest, raggiungono il colle sud-ovest, che battezzano Colle della Speranza. Ma cento metri più in alto, di fronte agli enormi strapiombi ghiacciati, si arrestano. Bonatti e Mauri non dispongono di materiale adatto per un lungo assedio alla montagna e per la posa di corde fisse su lunghi tratti, prassi che rispecchia la realtà del momento. I tentativi in stile alpino su montagne extraeuropee, in quell’epoca sono rarissimi exploit, eventi dovuti solo a particolari circostanze. Da allora il Cerro Torre avrebbe simboleggiato grotte nel ghiaccio, corde fisse, paziente e lenta attrezzatura della parete. Intanto, quasi nello stesso periodo, Bruno Detassis, Cesare Maestri e Cesarino Fava saggiano da est le difese del monte. L’impressione e lo stupore sono grandi.

Nell’estate australe di due anni dopo, nel gennaio 1959, Maestri ritorna nuovamente al Cerro Torre. I suoi compagni sono Toni Egger, alpinista di prim’ordine tanto su roccia quanto su ghiaccio, e l’andinista italo-argentino Cesarino Fava. L’assalto parte nuovamente da est. Cesare ha i suoi buoni motivi. Innanzitutto può già contare su una buona conoscenza della zona, poi la base del Torre è a soli 20 miglia in linea d’aria dall’Estancia Fitz Roy, e i primi chilometri si possono benissimo percorrere a cavallo. Da quel versante El Torre si eleva per più di 1300 m con elevate difficoltà tecniche, ma ciò non sembra impensierire troppo Maestri che ha più volte dato prova delle sue grandi capacità psicofisiche in Dolomiti. Ultimo motivo, certamente non meno importante dei precedenti, la via prescelta è al riparo dai dominanti venti di ovest.

Cesare Maestri

La prima parte dell’itinerario è esposta al pericolo di valanghe, ma a ben guardare, non è poi meno sicura del terreno circostante. Il materiale? Normali chiodi da roccia e da ghiaccio, staffe, cunei di legno, rotoli di corde, chiodi a pressione. E veniamo alla cronaca degli avvenimenti di quei giorni, per la verità un po’ nebulosi, ma non a caso, visto il tragico epilogo dell’impresa. Maestri, Egger e Fava, dopo un duro lavoro di attrezzatura della via durato quasi una settimana, salgono dunque il versante est fino al colle nord, che chiameranno Colle della Conquista. Per mezzo delle corde fisse, Fava ritorna poi alla base della parete. Il 29 gennaio i due abbandonano la cresta vera e propria per seguire invece una parete rocciosa, larga circa 200 metri nel primo tratto, incrostata da un notevole spessore di ghiaccio e neve dura. La roccia sottostante è molto liscia. Su una pendenza media di oltre 50°, con le punte frontali dei ramponi e con l’aiuto di chiodi da ghiaccio, riescono a salire 300 m, 10 lunghezze di corda da 30 m, che richiedono quasi un’ora di lavoro ciascuna. Per le soste usano chiodi a pressione, infissi nella roccia sottostante dopo un lungo e pericoloso lavoro di ripulitura che rischia di far incrinare le fragili placche di ghiaccio appoggiate alla parete. Niente corde fisse. Il posto di bivacco è una grotta scavata nel ghiaccio, che in qualche punto supera il metro di spessore. L’indomani, altri 300 metri e nuovo bivacco 100 m sotto la sommità. Il terzo giorno sono in vetta, da dove scendono velocemente al bivacco precedente, mentre la temperatura comincia pericolosamente a salire di parecchi gradi. Il resto della discesa sarà una fuga penosa per un nuovo canalone, in costante lotta con la temperatura che diviene di ora in ora sempre più calda. Le doppie si succedono una dietro l’altra sui chiodi a pressione piantati sul momento. Poi, finalmente, il colle e le corde fisse. Ma, a 300 metri dall’inizio di queste, la tragedia. Un’enorme valanga di ghiaccio dovuta forse al crollo del fungo sommitale, travolge Egger, scaraventandolo in basso. Maestri verrà ritrovato da Cesarino Fava alla base della parete in stato di semi-incoscienza. Di Toni, nonostante le ricerche, nulla. Maestri ritorna a casa. È vuoto e disperato.

Carlo Mauri

1975, sedici anni dopo. Al ritorno da un tentativo al Cerro Stanhardt, una cordata angloamericana scopre, semiseppelliti dalla neve, uno scarpone di vecchio modello e resti di materiale alpinistico. Nient’altro.

Il Cerro Torre è ora al centro dell’attenzione alpinistica mondiale. Nel 1968 una forte spedizione inglese, di cui fanno parte Dougal Haston, Mick Burke, Martin Boysen e Pete Crew, si reca in Patagonia per tentarne la salita dallo spigolo sud-est. Sono tutti grossi nomi, molto preparati sia su ghiaccio che su roccia, abituati ad arrampicare d’inverno con qualsiasi tempo sulle montagne scozzesi. È gente forte anche in senso psicologico, forse molto di più degli scalatori abituati solo alle salite sulle Alpi, dove con il brutto tempo è di prammatica starsene a casa. Con loro c’è anche José Luis Fonrouge che ha salito nel ’65 il Supercouloir del Fitz Roy in stile alpino. Con un’arrampicata durissima salgono 600 metri di spigolo, poi il cattivo tempo e la perdita di una parte del materiale li costringono a desistere. Giapponesi e argentini, che nei due anni successivi cercano di completare la via, non riescono neppure ad arrivare al punto massimo raggiunto nel ’68.

Cesare Maestri e lo spigolo sud-est
Ma gli echi della salita del ’59 non si sono ancora spenti. A poco a poco, anzi, crudeli polemiche prendono forma. E Maestri? I suoi ricordi sono appannati, salta fuori qualche contraddizione, e poi le prove fotografiche della scalata se ne sono andate per sempre con Egger. In prima fila a puntare il dito accusatore c’è un gruppo di alpinisti inglesi. Le polemiche e le insinuazioni esplodono dopo la pubblicazione di un articolo di Maestri sul bimestrale inglese Mountain. Da notare, a margine, che l’articolo non venne fornito direttamente dal Nostro; esso fu invece tradotto in inglese sulla base del testo francese apparso su La Montagne et Alpinisme. Dall’italiano al francese, e da quest’ultimo all’inglese! In Italia, dopo la fallita impresa dei lecchesi alla Ovest del Torre, le dichiarazioni dell’«inviolabilità» della montagna, fanno crescere il tarlo del dubbio.

Toni Egger

Per Maestri la situazione sta diventando incandescente. È il solito vecchio gioco. L’idolo prima è imposto alla venerazione delle masse, poi, quando il modello tende a logorarsi, viene rimesso in discussione e spinto a imprese sempre più dure e pazzesche. Condizione per racchiudere le masse in una piatta normalità, è che tutto ciò che è al di là della norma deve confluire nella figura dell’uomo eroe che opera l’impossibile. In altre parole, l’eroe diviene il simbolo dell’incapacità della gente comune e la garanzia della sua sottomissione. Solo Lui può. Ma l’eroe per essere tale non deve mai abdicare, anzi per poter essere deve continuamente farsi. È l’essere in divenire per eccellenza. E Maestri, che un po’ ama essere personaggio, abbocca. Ma non come si vorrebbe. Di fronte all’alternativa di accettare il gioco o uscirne, Maestri sceglie una strada personale, stracciando le regole e l’etica che gli vengono imposti, oltrepassando limiti e barriere. Nell’estate del ’70, in pieno inverno australe, attacca con un gruppo di amici il Cerro Torre per il noto spigolo sud-est. Con Carlo Claus, Ezio Alimonta, Pietro Vidi, Renato Valentini e Fava, dal 23 maggio al 9 luglio, lancia la sua sfida. Con ostentata beffardaggine si porta a spasso un marchingegno pneumatico per bucare la roccia, del peso di oltre 70 chili: servirà per i 350 m di parete non chiodabili con le tecniche normali. E la provocazione ha inizio, «… sono convinto che una volta accettata la chiodatura a pressione, il fatto di ferire la roccia con un bulino a mano o di ferirla con un bulino meccanico non cambia nulla. Per i conservatori rimarrà comunque ferita, per me è solo trarre vantaggio dalla tecnica. Per me il bulino meccanico equivale all’asta di plastica nel salto in alto. Cambia il materiale di cui è fatta l’asta, migliora la prestazione tecnica, ma l’attrezzo rimane quello che è senza togliere o aggiungere niente all’abilità del saltatore. A me potrebbero darne anche dieci di aste, in oro, tempestate di diamanti, in uranio: non mi alzerei di mezzo metro da terra (Fernanda e Cesare Maestri – Duemila metri della nostra vita, Garzanti)».

E ancora: «… arrampicheremo con qualsiasi tempo, perché sperare di scalare il Torre con il sole sarebbe come cader in acqua e pretendere di non bagnarsi (ibidem)». Sono 54 giorni di scalata e 28 notti trascorse in parete. Solo sei volte vedranno il sole, negli altri giorni la temperatura si aggirerà in media tra i —20° e i —26°, con venti tra gli 80 e i 150 km/h.

La salita si fa sfibrante: corde fisse, bivacchi nelle grotte di ghiaccio, lunghissime soste di attesa del secondo di cordata, duri e costanti rifornimenti di materiale dalla base, il recupero del pesantissimo compressore… Ma a 400 m dalla vetta il gruppo è costretto ad arrendersi. Manca il combustibile e i viveri stanno per finire. Torneranno cinque mesi più tardi e, in situazioni meteorologiche eccezionalmente buone per il Cerro Torre, riusciranno a raggiungere la vetta. Intanto: «Il rombo del nostro motore riempie la valle del Torre. È una sfida a tutti i tabù dell’alpinismo. Ad alcuni potrà sembrare una bestemmia: per me è un inno contro i pregiudizi e le idee preconcette, è l’inno dell’uomo disposto a farsi aiutare nella sua fatica da qualsiasi artificio o macchina, purché lui stesso risolva il problema, con coscienza e raziocinio, senza farsi condizionare o sottomettere da mezzi meccanici (ibidem)».

Bruno Detassis

È il 2 dicembre 1970. In tutto hanno superato 1600 m di dislivello per uno sviluppo complessivo di 2000 m, 800 dei quali con tecnica di ghiaccio, 850 con tecnica classica e 350 con la tecnica dei chiodi a pressione. Subito c’è chi grida allo scandalo e al sacrilegio.

A posteriori, placatosi il gran polverone di quei giorni, abbiamo però l’impressione che Maestri non abbia per nulla violato il Cerro Torre, come molti dissero.

Crediamo piuttosto che Maestri abbia invece cercato di far saltare, di rompere quella strategia sociale che impone anche le regole del gioco in montagna. In quel momento era forse più importante per lui rigettare certi imperativi etici soffocanti, piuttosto che piegarsi alla volontà sociale che lo spingeva in false direzioni. Il Cerro Torre era diventato la materializzazione del meccanismo che voleva dominarlo. Ecco, probabilmente, la spiegazione dell’atto sacrilego. «Mi dai delle regole? Bene, io le infrango!». «Qualcuno dice che questo è un sacrilegio? Bene, allora ci vado con un compressore di 70 kg, con i chiodi a pressione e d’inverno».

Effettivamente è quasi ridicolo pensare che Maestri, protagonista in prima persona dello sviluppo dell’arrampicata alpina dal dopoguerra ad oggi, grande scalatore in libera, cultore raffinato delle salite artificiali, si bei e tragga un appagamento totale di fronte a un compressore.

Di lui si può dire che è puerile, facilone, permaloso, ma troppe volte ha dimostrato di essere leale e intelligente per poterlo classificare come un «accaparratore di vette», come è stato fatto da qualcuno dei componenti della fallita spedizione anglo-svizzera del ’72 che tentava la ripetizione dello spigolo sud-est (si tratta della spedizione di cui facevano parte gli inglesi Leo Dickinson, Gordon Hibberd, Eric Jones, Pete Minks, Cliff Phillips e lo svizzero Hans-Peter Trachsel), salvo poi attaccarsi ai chiodi a pressione precedentemente infissi per… il cattivo tempo e usare, quindi, indirettamente il compressore senza doverne però quotidianamente tirare su il peso. Tutto ciò probabilmente non è mai stato capito e così, anche in quella occasione, ci si è lanciati in allucinanti discussioni sulla legalità dei vari mezzi che permettono la scalata artificiale, alla ricerca di qualche novello pontefice con sacrosanto diritto di stabilire una scala di valori sul modo di salire le montagne.

Mick Burke

La parete ovest
II 1970 è anche l’anno del tentativo del CAI di Belledo alla Ovest del Cerro Torre. La spedizione è costituita da un folto gruppo di alpinisti lombardi. Ne fanno parte Carlo Mauri, Casimiro Ferrari, Roberto Chiappa, Gianni Stefanon, Pierlorenzo Acquistapace, Piero Ravà, Gian Felice Rocca, Giuseppe Cima e Gianluigi Lanfranchi. L’avvicinamento alla montagna per la grossa spedizione si rivela assai lungo e faticoso: per raggiungere il Paso del Viento, dove pongono il campo base, essi devono trascinare 1500 kg di materiale per i 60 km di ghiacciaio che li separano dalla base della montagna e superare la valle del Rio Tunel. Di qui saliranno al colle della Speranza e poi attaccheranno la parete ovest, vecchio sogno di Bonatti e di Mauri.

Essendo da questo lato meno riparato dal vento, il Torre si presenta sempre ricoperto da una spessa corazza di neve e di ghiaccio poroso che lo fanno somigliare a un gigantesco, monolitico seracco sperduto in mezzo al deserto di Patagonia.

Durante la salita vengono superati in precaria tecnica artificiale durissimi tratti di ghiaccio verticale poroso e una difficile traversata strapiombante. Per comprendere le difficoltà che la spedizione si è trovata di fronte, bisogna che si tengano ben presenti anche i tempi e i mezzi dell’arrampicata su ghiaccio, che nel ’70 non erano certamente paragonabili agli attuali, frutto di tecniche più evolute e raffinate.

I componenti la spedizione Città di Lecco al completo posano nei pressi del Lago Viedma con lo sfondo del Torre. Da sinistra, Gian Felice Rocca, Giuseppe Cima, Gianni Stefanon, Piero Ravà, Carlo Mauri, Roberto Chiappa, Gianluigi Lanfranchi, Casimiro Ferrari e Pierlorenzo Acquistapace.

Infine Mauri e compagni raggiungono l’Elmo, spalla della cresta sud-ovest, sotto la torre terminale. Qui i lecchesi installano l’ultimo campo e partono per l’attacco finale, attrezzando la parte inferiore della torre terminale. Giunti però a duecento metri dalla vetta, si arrestano sotto pericolosissime incrostazioni di ghiaccio che minacciano di crollare per il sovraccarico. La spedizione rientra. Senza storia, a causa del perdurare del maltempo, è il tentativo del ’73 da parte dei californiani Yvon Chouinard, J. Miller, Royal Robbins e Doug Tompkins, nomi troppo noti per essere presentati ai lettori.

Le possibilità di salita lungo la parete ovest sono ancora aperte. Ma ancora per poco: il 13 gennaio 1974 Casimiro Ferrari, Roberto Chiappa, Mario Conti e Pino Negri giungono finalmente in vetta per la via già precedentemente tentata nel ’70. A poca distanza dalla sommità arrivano anche Gigi Alippi, Claudio Corti e Angelo Zoia. Questa magnifica impresa dei Ragni di Lecco, svoltasi su un itinerario logico, esteticamente molto bello e con mezzi tradizionali, viene portata a termine con un formidabile lavoro di gruppo. Pochi sono i nomi che emergono: la logica di gruppo, che non permette assolutamente differenziazioni, è proprio l’elemento prevalente che occorre tenere ben presente all’interno della spedizione per capire il successo dei lecchesi nelle numerose imprese extraeuropee. Questo dei Ragni è un tipo di alpinismo che sarebbe davvero molto interessante analizzare. Le sue radici affondano nell’Italia degli anni ’50, quando si formano, in decisa contrapposizione all’ambiente alpinistico precedente, gruppi di giovani di estrazione operaia che prendono a frequentare la montagna secondo un’etica che rivaluta l’azione del gruppo, la sua cultura, la sua logica contrariamente a quanto succede nel sociale, dove i personalismi, le differenziazioni, le divisioni sono all’ordine del giorno. Non è casuale il fatto che nel corso di questi anni l’azione del gruppo lecchese si sia appuntata su qualcuno dei picchi della Patagonia.

L’isolamento, la mancanza di portatori e la necessità dell’autosufficienza erano la migliore garanzia della gestione totale dell’impresa da parte del gruppo. Comunque la salita di Ferrari e compagni desta echi e ammirazione in tutto il mondo alpinistico. Due anni dopo John Bragg, Jay Wilson e Dave Carman ripetono la via della parete ovest, confermando l’impressione favorevole ed entusiastica espressa dalle spedizioni precedenti. Ricordiamoci che Bragg e Wilson non sono certamente dei novellini della Patagonia: l’anno prima, nel 1975, con un altro americano, Jim Donini, erano riusciti a salire la Torre Egger dal versante sud-ovest per una via che presenta tratti di altissima difficoltà.

Jim Bridwell in vetta al Cerro Torre dopo la salita dello spigolo sud-est in stile alpino, nel 1979.

La parete est del Cerro Torre
La fine degli anni ’70 porta nuove sorprese nella zona del Cerro Torre. I tempi maturano e qualcuno comincia a pensare alla gigantesca parete est, alta più di duemila metri, un grande, selvaggio campo di gioco e di avventura. Sono gli inglesi Brian Wywill e Ben Campbell-Kelly a concepire per primi l’impresa. Attaccano nel febbraio 1978. Salgono i primi trecento metri dell’itinerario di Egger e Maestri del ’59, poi un tratto di quattrocento metri comune alla via seguita da Bragg, Donini e Wilson nel ’76 per scalare la vicinissima Torre Egger. Duecento metri sopra il colle si spostano però in direzione dell’enorme fessura-camino strapiombante che domina il fianco settentrionale della parete est. Dopo un buon tratto di salita su forti difficoltà, i due inglesi rimangono bloccati dal maltempo: in sedici giorni riescono infatti a progredire solo di 250 m in tecnica artificiale.

Il 28 marzo, per il persistere di una violentissima tempesta, decidono infine di abbandonare, dopo aver lasciato in loco gran parte del materiale di scalata. L’impresa sul piano tecnico è notevolissima; va da sé che Wywill e Campbell-Kelly hanno saputo inventare una grande, fantastica via, sicuramente la meta dei più forti scalatori dei prossimi anni. Intanto i due inglesi, impossibilitati a ritornare in Patagonia nel ‘79, stanno ora, al momento in cui scriviamo, accingendosi a un nuovo tentativo sull’inviolata parete.

Cerro Torre in stile alpino
(Tutte le citazioni sono tratte dagli articoli: Jim D. Bridwell – Cerro Torre alpine style, in The American Alpine Journal, 1980 e Steve Brewer – Cerro Torre, alpine style in Climbing n. 58)

Dopo i tentativi di inglesi, italiani, giapponesi, argentini e la salita di Maestri nel ’70, lo spigolo sud-est del Cerro Torre sarà nuovamente nel 1979 terreno di una formidabile, velocissima salita in stile alpino.

I protagonisti sono due californiani, Jim Bridwell, fortissimo scalatore del Yosemite, atleta magnificamente dotato, con alle spalle un enorme numero di salite di altissima difficoltà e Steve Brewer, giovane alpinista e formidabile ghiacciatore. Il loro incontro in Sud America è quasi casuale. Bridwell, che è ormai alla seconda spedizione in Patagonia, al momento di scalare il Cerro Torre, viene improvvisamente abbandonato dai suoi due compagni che «… dopo aver fatto tutta la strada dalla California alla Patagonia, e aver visto i termini del problema in prima persona… decisero che avrebbero trovato tempo migliore da qualche altra parte». Intanto «la sua spedizione si era sfasciata e un valore di equipaggiamento di 2000 dollari giaceva seppellito nelle grotte di ghiaccio alla base del Torre». I due si incontrano la vigilia di Natale nel Parco Nazionale del Fitz Roy. Brewer è al termine di un lungo giro in Sud America: «Avevo fatto autostop fino al Parco con un equipaggiamento scarsissimo, circa 50 kg di cibo locale, dopo un’intera stagione di arrampicate coronate da successo in Perù, un mese di ospedale in Bolivia a causa di un’epatite, e un lungo volo fino a Punta Arena, nella Patagonia Cilena». L’accordo è presto raggiunto. Il 3 gennaio «alle 3,30 del mattino stavamo arrampicando simultaneamente e velocemente, in un’alba scura, sulle prime lunghezze di ghiaccio. Steve al comando». Indubbiamente la coppia è veramente assortita, se teniamo conto del fatto che «Jim non aveva mai salito ghiaccio ripido, ma non era il momento delle lezioni»; in compenso «aveva un sacco di esperienza in più su roccia, e lo avrebbe dimostrato nella parte superiore dello spigolo». In definitiva, «potevamo combinare le nostre migliori attitudini per andar su il più velocemente possibile». La loro speranza è quella di raggiungere il colle entro l’alba.

«Le precedenti spedizioni avevano piazzato le loro grotte di ghiaccio più avanzate su questo colle e, da qui, si gettavano poi sulla parte superiore dello spigolo. Il nostro piano era diverso».

E anche l’attrezzatura: «Ci eravamo portati nel sacco il minimo indispensabile di vestiario: giacche di piumino, sovrapantaloni e sacchi da bivacco; per mangiare: farina d’avena, zucchero e minestre; e come equipaggiamento, 25 tra chiodi e nut, 25 moschettoni, 6 chiodi da ghiaccio, un piccolo corredo di chiodi a espansione, due corde da 9 mm e, naturalmente, molto coraggio».

Dal punto di vista psicologico, i due sono ben preparati e in ciò sono sicuramente aiutati dall’enorme attività di alto livello che svolgono quotidianamente sulle montagne di casa loro. «Tuttavia mi piace pensare che se non siamo spaventati, non stiamo esattamente prendendoci un divertimento. Se ciò fosse vero, il Cerro Torre dovrebbe valere almeno un paio d’anni di Disneyland». Bridwell e Brewer raggiungono il colle all’alba: «Erano le 5.30, quando presi io il comando sulla roccia e condussi il primo tiro su per un camino strapiombante. Alla fine della lunghezza fissai la corda in modo che Steve potesse salire con i jumar e io tirar su a braccia il mio sacco». Con questa tecnica «le lunghezze si succedevano una dietro l’altra velocemente nell’azzurro, alcune su roccia pulita, altre con difficoltà di misto, mentre altre ancora presentavano tratti in artificiale». Le difficoltà sono forti, tratti di 5.7, 5.8 e qualche tratto di 5.9 (VI+), l’arrampicata è in parte in libera e in parte in artificiale con i mezzi tradizionali. Poi, placche ghiacciate, qualche chiodo a pressione, pericolose cadute di ghiaccio. Intanto la distanza percorsa si allunga sempre di più, finché: «… era ormai sera e, chiodi a espansione o no, mi resi conto che eravamo più alti., in un giorno solo, di tutti quelli che avevano tentato il Torre. Ero certo che ciò che Steve ed io avevamo fatto era soltanto una premonizione di quanto sarebbero stati capaci di fare i giovani arrampicatori in un prossimo futuro. Noi probabilmente avevamo arrampicato nella maniera più veloce possibile su una montagna di quel livello tecnico. Ogni cosa stava andando secondo i miei piani. Le nostre speranze venivano soddisfatte». La sera, prima del bivacco, calcolano di aver salito circa 1000 m di via, «… più che il Nose del Capitan, su difficoltà quasi simili».

Nella notte il tempo cambia, le buone condizioni atmosferiche del giorno precedente sono un’eccezione in Patagonia. «Il vento era cambiato e adesso soffiava da ovest con avvisaglie di tempesta… dovevamo prendere subito una decisione. In basso arrivavano gonfi segni premonitori della vicina tempesta. Quanto tempo avevamo? Aggirammo l’ostacolo cercando di ignorarlo. Ponendo il nostro destino nel vento patagonico, cominciammo ad arrampicare in gara col tempo rapace». Presto giungono al punto massimo raggiunto dagli inglesi nel ’72, in mezzo a mazzi di ferraglia, moschettoni e corde attorcigliate. Pochissimi i chiodi a espansione, quelli che gli inglesi dissero di aver visto piazzati in modo smodato. Brewer è sarcastico: « Where was the huge number of bolts the British had accused Maestri of placing? (Dov’era l’alto numero di chiodi a pressione di cui gli inglesi accusavano Maestri? Steve Brewer in Climbing n. 58).

La Torre Egger da est; questa impressionante guglia granitica fa da colossale spalla al Cerro Torre.

I californiani arrampicano in libera tutti i tratti in cui la cosa è possibile, si muovono assieme nei tratti attrezzati con chiodi ad espansione, mentre il tempo si sta rapidamente deteriorando. Spesso, prima di potervi agganciare il moschettone, il chiodo deve essere ripulito da una dozzina di pollici di ghiaccio. Interessante è l’ammirazione di questi due americani per il primo salitore dello spigolo. Ritengono che qualche tratto avrebbe potuto essere salito in artificiale con chiodi normali, ma candidamente Brewer non ha nessuna difficoltà ad affermare che: «We wouldn’t have able to continue without these bolts, though (Comunque non saremmo stati capaci di continuare senza questi chiodi a pressione, Steve Brewer, ibidem)». «Forse avremmo potuto arrampicare senza di essi per duecento piedi, ma poi la parete ridiventa compatta». Bridwell arriva in prossimità del compressore di Maestri, mentre nubi minacciose turbinano sulla vetta del Cerro Torre.

«Fui meravigliato da quel coso, qui vicino alla vetta di questa magnifica guglia, e pensai che tirar su un pezzo di marchingegno di quelle dimensioni era qualcosa che poteva essere paragonato alla traversata delle Alpi da parte di Annibale». «Guardando su, vidi sette chiodi a espansione spezzati, per nulla in buone condizioni, poi, trentacinque metri di chiaro granito si allungavano tra l’ultimo chiodo a espansione e la sommità nevosa. Mio Dio – pensai – Maestri deve aver chiodato venticinque metri di ghiaccio precariamente posato sulla roccia liscia! Tirai fuori la cassettina dei chiodi a espansione e presi a lavorare piazzando tasselli in alluminio, knifeblade e copperhead… Finalmente arrivai in prossimità del ghiaccio. Un ultimo copperhead e potevo finalmente tagliare una scanalatura in una fessura piena di ghiaccio e piazzare un friend». D’ora in avanti i due alpinisti non trovano più un solo chiodo e, curiosamente, non tenendo conto che le placche di ghiaccio che ricoprono il granito del Cerro Torre possono ritirarsi o formarsi a seconda delle condizioni atmosferiche, pensano che la spedizione dei trentini non sia arrivata in punta. «La parte finale sembrava essere costituita da una marcia relativamente facile e mi domandai perché Maestri e compagni non fossero saliti in vetta».

Comunque, poco dopo, Bridwell e Brewer, sono in vetta. Un giorno e mezzo di scalata! Un tempo prodigioso, indicativo di quanto in dieci anni si siano evolute mentalità e tecniche nell’ambito dell’alpinismo. C’è una corrispondenza eccezionale tra quanto è avvenuto sulle Alpi e il modo di andare in montagna in sistemi montuosi extraeuropei, tanto più se questi sono situati in zone selvagge come quelle della Patagonia. Nel caso di questa salita occorre ammirare il tempismo e la velocità che hanno permesso ai due californiani di sgusciare tra le terribili tempeste patagoniche in cui è davvero proibitivo salire o scendere, ma è doveroso riflettere anche su un altro elemento a nostro avviso determinante in questo genere di scalate: il totale, completo e rapido adattamento a una severissima situazione ambientale, difficilmente riscontrabile altrove. Essere in armonia con la natura, sfruttare i piccoli intervalli tra le tempeste, rinunciare anche alle più piccole comodità, saper diventare un elemento ambientale tra i tanti senza per questo umiliarsi, ecco il segreto per passare dove tanti altri hanno fallito. È una lezione di umiltà, non di forza bruta, di pazienza, e di disposizione mentale.

Occorre spendere qualche parola per la discesa di Bridwell e Brewer, anche perché al Torre essa è sempre una questione importante e ognuna di esse ha sempre una storia. Raggiunta dunque la vetta, i nostri divallano in piena tormenta e dopo varie peripezie raggiungono il luogo del bivacco proprio in tempo per vedere «… i draghi della tempesta che scagliano dardi...». L’indomani inizia la lunga teoria delle corde doppie che richiede un metodico lavoro di ripulitura dei chiodi di ancoraggio. Nell’affanno della discesa, a causa della scarsissima visibilità, Bridwell collega accidentalmente il suo swami belt (particolare imbragatura, usata soprattutto dagli arrampicatori statunitensi) a un chiodo con il cordino del martello, anziché usare un normale cordino di assicurazione. Sotto il peso dello scalatore la precaria assicurazione si strappa ed è il volo per diverse decine di metri, fin quando una corda da 9 mm entra in tiro e frena la caduta. Qualche costola rotta, una bella ammaccatura ad un fianco e un’escoriazione al ginocchio saranno il calvario da portarsi appresso fino al campo base della spedizione italiana che sta tentando la salita della torre Egger.

John Bragg su un difficile traverso al di sotto del primo ghiacciaio.

 

 

 

Torre Egger, ultimo ribelle di granito
(le citazioni sono tratte da Salita della Torre Egger in Mountain n. 51.

La Torre
Una delle mete più ambite degli scalatori è stata, negli ultimi anni, la prima salita della Torre Egger, in Patagonia. Sebbene all’apparenza risulti un po’ rimpicciolita dall’incombente mole del vicino Cerro Torre, situato immediatamente a sud di essa, la Torre Egger… «è una delle guglie più impressionanti da immaginare». Dal punto di vista alpinistico si è venuta rivelando come un osso veramente duro, anche perché l’accesso a questa montagna è nettamente più ostico di quello alle altre cime vicine. Il Cerro Torre da ovest può essere salito fino al colle della Speranza (che divide il picco principale dal Cerro Adela) attraverso rampe di ghiaccio non difficilissime dal punto di vista tecnico. Alla Egger, niente di tutto ciò, perché pendii di tal genere non esistono: ogni possibile via di salita deve fare i conti con più di 1100 m di roccia difficile incrostata di ghiaccio.

«Emergendo in una verticale distesa di granito su fino alla sommità ricoperta di ghiaccio, essa, con il vicino Cerro Torre, è il simbolo delle ultime sfide dell’alpinismo».

La Torre Egger non ha assolutamente storia alpinistica prima del 1974, anno in cui una forte spedizione angloamericana capitanata da Martin Boysen, e della quale facevano parte i britannici Don Whillans, Leo Dickinson, Eric Jones, Paul Tut Braithwaite, Mick Coffey, Keith Lewis, l’argentino Rafael Juárez e gli americani Daniel Reid e Rick Sylvester, tenta il versante nord-est. Si tratta di un gruppo di alpinisti molto preparati, alcuni dei quali sono molto noti anche in Italia per la realizzazione di difficili vie nelle Alpi occidentali.

L’americano Jim Donini scriverà nel ’76 che la via tentata dagli inglesi sembrava «senza speranza. Essa consiste infatti in enormi diedri e gole che diventano vere e proprie condotte per l’acqua di fusione nei giorni di bel tempo».

Il primo tentativo naufraga comunque in mezzo alle enormi difficoltà e alle continue cadute di ghiaccio che causano, tra l’altro, anche la frattura di un braccio a Braithwaite.

In quello stesso anno John Bragg, scalatore molto noto per l’apertura di un grande numero di vie di elevata difficoltà negli ultimi anni in Colorado, durante un tentativo al Cerro Stanhardt, una piccola guglia a nord del Cerro Torre, individua una possibile via di salita alla Torre Egger da sud-est. «Salire al colle (della Conquista, n.d.t.) per la via di Maestri ed Egger del ’59 sembrava una cosa abbastanza ragionevole e, sebbene non potessimo individuare una facile via di salita sopra il colle, ci persuademmo che su una montagna delle dimensioni della Torre Egger, avrebbe senz’altro dovuto esserci una via su quella parete finale di 350 m, spaventosa allo sguardo». Nel luglio ’75 Jim Donini e John Bragg si accordano con Jay Wilson, uno scalatore del Wyoming dalla dura scorza e dotato di un’ottima resistenza, per ripetere la via di Maestri fino al Colle della Conquista e proseguire poi per il ripido versante sud della Torre Egger.

Gli americani nell’inverno dello stesso anno si trovano inaspettatamente in compagnia di un forte contingente di neozelandesi la cui meta è quella di portare a termine la via di nord-est, già tentata dagli inglesi. Del gruppo fanno parte, tra gli altri, Peate Gough, Bill Denz, Phil Herron, John Stanton, Mike Franklin, Murray Judge, Daryll Thompson, Hugh Logan e Tini Whethey. La presenza di alpinisti dell’emisfero australe in zone alpinisticamente «calde» non è certamente un’eccezione in questi ultimi anni. Basterà citare a questo proposito la presenza degli australiani al Mojon Rojo e a El Mocho, satelliti del Torre, nel ’77 e alla Nord del Fitz Roy nel ’75 per intuire gli sviluppi dell’alpinismo nel continente australe. Comunque, pur avendo obiettivi diversi, le due spedizioni saranno sempre in continuo contatto nei periodi di forzata inattività, anche per la notevole vicinanza dei rispettivi campi base, ottenuti in grotte scavate nella neve ai piedi della montagna.

Jim Donini

Dopo i primi trasporti di materiale in parete il maltempo fa da padrone incontrastato… «Le successive settimane le ricordo come un collage di immagini separate e distinte, ma unite in una cornice di tempeste e frustrazione: l’immagine dell’attraente danza delle nuvole su e giù per la roccia impastata di ghiaccio, la nostra prima candela che illumina la notte nella grotta di ghiaccio, il trasporto dei carichi sulla parete flagellata dal vento, il bouldering nella bellissima foresta di faggi e le interminabili partite a canasta su un ceppo alla baracca. In una radura della foresta viene festeggiato il Natale tra neozelandesi e americani: è veramente un bianco natale, anche per il rafforzarsi dell’azione del vento che imbianca i faggi». Intanto i giorni passano e… «i venti continuano ancora. Periodi di tempo più bello, della durata di poche ore, con un vago sentore di permanenza, ci adescavano fuori dalla foresta di faggi fin su alle grotte nel ghiacciaio, sempre in tempo per vedere la sera inghiottita dalle gelide nuvole che si levavano dall’Ics Cap. Giorni e giorni nelle grotte di ghiaccio, nella speranza di entrare subito in azione col bel tempo…». Poi un periodo di tempo buono. I neozelandesi riescono ad attrezzare il nevaio pensile fino a un terzo della sua altezza, gli americani procedono anch’essi. Poco dopo una nuova, grande nevicata. Si scende alle grotte.

Il giorno seguente nevica pesantemente. Nel tardo pomeriggio gli americani vengono sorpresi da una inaspettata visita di Phil Herron. «Phil era il più giovane dei neozelandesi: diciannove anni e sprizzava energia ed entusiasmo, uno dei loro migliori scalatori dal punto di vista tecnico. Irradiava quella vitalità e sicurezza propria di chi deve porre ancora dei limiti davanti a sé. Il suo potenziale era senza limite, semplicemente perché non aveva mai cercato di quantificarlo… la conversazione cade sul tempo… Phil e il suo compagno decidono di restare un giorno di più».

Il giorno dopo, Phil morirà. Scendendo alla grotta nel ghiaccio in condizioni di tempo orribili, scivola per 50 m e si infila in un crepaccio. Whethey, caduto anch’esso, riesce a tirarsi fuori da solo, ma Herron rimane incastrato nel punto in cui la crepaccia si restringe. L’amico scende in doppia e per quattro ore cerca di liberare il compagno. Ma con i mezzi a disposizione l’impresa è disperata. Costretto forzatamente ad abbandonare Phil, Whethey scende a cercare aiuto. Il giorno successivo, però, Herron è già morto e il suo corpo, scivolato nottetempo fuori portata, non viene più recuperato.

«La morte di Phil implicò la fine della spedizione neozelandese. Sette settimane di tempo orribile, durante le quali furono fatti solo minimi progressi e in più la morte di Phil li portarono all’unanime decisione di abbandonare la salita». Dodici giorni più tardi, il tempo comincia a schiarirsi e gli americani si muovono finalmente sulla loro via, trovando ancora i resti della salita del ’59. Sensibilmente avvantaggiati dall’equipaggiamento supplementare donato loro dai neozelandesi, Donini, Bragg e Wilson riescono a spingere la linea delle loro corde fisse fino al colle, dove stabiliscono un piccolo campo in una Whillans Box. Da qui in cinque giorni di durissima arrampicata, superando tratti di 5.9 (VI+) e A4 e ripidi pendii ghiacciati con un’inclinazione di 70°, 80°, aprono una via di 13 lunghezze di corda che il 22 febbraio 1976 li condurrà finalmente in vetta.

Si tratta sicuramente di una delle più difficili vie aperte nel gruppo, in stile semi-alpino, senza l’impiego di un solo chiodo a espansione. Indubbiamente, però, nel paragonare questa alle imprese precedenti, bisogna andare al di là di quelli che possono essere i meriti dei tre americani, che per altro hanno dimostrato una grande preparazione. La salita del ’75 è figlia del suo tempo, figlia di un nuovo modo di arrampicare che si è andato gradualmente formando sui terreni estremi del Nord America, ma soprattutto logica conseguenza dell’abbattimento di gran parte di quelle pesanti barriere psicologiche che l’ambiente alpinistico europeo si è portato a spasso per anni come una pesante palla al piede.

John Bragg

La via di nord-est alla Torre Egger
Se il 22 febbraio 1976 vede finalmente la prima salita della Torre Egger, non per questo tutti i problemi alpinistici dell’impressionante guglia granitica possono dirsi risolti.

Senza nulla togliere al merito della via di sud-est, bisogna comunque sottolineare che essa percorre solo 350 m sulla Torre Egger propriamente detta. Il grosso quesito aperto da Boysen e compagni resta ancora senza risposta. Ci prova nuovamente un gruppo di inglesi, poi una numerosa spedizione trentina della val di Fassa (19 uomini). Nulla di fatto.

Nel ’79 è la volta di Giuliano Giongo, Bruno De Donà e Cesare De Nardin. Anch’essi devono retrocedere. Giongo e De Donà però si sono già recati in Patagonia nel 1977, quando hanno salito la Ovest del Fitz Roy e conoscono molto bene le «cosas patagonicas».

Nell’inverno del ’79 il richiamo diventa irresistibile, i due sono nuovamente all’attacco della via. Anche questa volta il maltempo ci mette lo zampino. Giongo e De Donà non hanno chiodi ad espansione, non hanno radio, non dispongono di mezzi per attrezzare la parete con la solita enorme sequela di corde fisse. Ma sono testardi e cocciuti, hanno la qualità principale necessaria agli scalatori patagonici, e il 15 marzo 1980, dopo otto tentativi consecutivi, arrivano in vetta, semplicemente, senza pubblicità. E in Italia non se ne sapeva nulla. Poche informazioni e un lungo lavoro di ricerca ci hanno portato a loro.

(Vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/due-sulla-torre-egger/, NdR)

Bibliografia
Climbing, Aspen (Colorado).
La Montagne et Alpinisme, Club Alpine Français – Paris.
Mountain, Londra.
The American Alpine Journal, The American Alpine Club (New York).
Rassegna Alpina, Milano.
Doug Scott, Le grandi pareti, Il Castello (Milano 1976).
Casomiro Ferrari, Cerro Torre, parete ovest, Dall’Oglio, Milano, 1975.
Cesare e Fernanda Maestri, Duemila metri della nostra vita, Garzanti, Milano, 1972.
Gian Piero Motti, Storia dell’alpinismo, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1977).
Ascent, San Francisco.
Walter Bonatti, Le mie montagne, Zanichelli, Bologna, 1961.

2
Le torri del vento ultima modifica: 2018-10-15T05:59:58+02:00 da GognaBlog

8 pensieri su “Le torri del vento”

  1. 8
    Alberto Benassi says:

    Renato zona Torre ci sono anche queste:

    Cerro El Mocho parte est

    via “TODO E NADA”

    G.C.Grassi – Roberto Pe – Mauro Rossi nel 1986

     

    Cerro ADELA SUR

    via “Direttissima dei Seracchi”

    G.C. Grassi e Mauro Rossi nel 1986

  2. 7

    Levatevi ogni dubbio sull’alpinismo patagonico (italiano e non) leggendovi la guida Patagonia Vertical di Rolando Garibotti e Doerte Pietron. O se preferite le chiacchiere, continuate pure a scrivere qui tutto quello che vi passa per la testa.

    L’articolo è ineccepibile sotto ogni punto di vista, come si conviene ai prodotti di Mantovani. La datazione dell’articolo riporta qualche inesattezza perché ai tempi della stesura si avevano meno elementi su certe storie misteriose.

  3. 6
    Renato says:

    Grazie, mi avete confermato quello che pensavo per la zona del Cerro Torre (solo una via di Ferrari) e del Fitz Roy (una di Casarotto e una di Ferrari).
    Mi sono dimenticato di Bernasconi, Della Bordella e Schiera alla Torre Egger e in altri tempi quella dei fortissimi Giongo e De Donà.
    Non mi sembra vi siano altri alpinisti italiani che in quella zona abbiano fatto roba nuova o salito cime inviolate, del Salvaterra so poco, penso che lui abbia fatto di tutto.
    Però nessuna cima è italiana in quella zona, anche se se ne parla molto.
    Nelle Ande Patagoniche comunque gli italiani han scalato tanto.
    Sbaglio qualcosa?

  4. 5
    Fabio Bertoncelli says:

    Il pioniere fu padre A.M. De Agostini nel 1930 (Cerro Mayo, con L. Bron, E. Croux ed E. Feruglio), 1931 (Cerro Turin) e 1932 (Cerro Electrico, Cordon Moyano). Poi fu la volta di Ettore Castiglioni.

    Quindi si presentarono Cesare Maestri, Marino Stenico, Catullo Detassis, Luciano Eccher (Cerro Grande; 1958), e pure Walter Bonatti con Carlo Mauri (Cerro Doblado, Cerro Adela; 1958).

    Nel 1958 J. Bich e altri (spedizione Guido Monzino) salirono l’inviolata Torre Nord del Paine. Nel 1963 Aste e compagni scalarono la Torre Sud del Paine.

    Silvia Metzeltin, Gino Buscaini, L. Candot, W. Romano e S. Sinigoi salirono la difficile e inviolata Aguja Saint-Exupèry.

    Nella Terra del Fuoco Carlo Mauri e Clemente Maffei scalarono per primi il difficilissimo Monte Sarmiento (spedizione 1955-56); lo stesso Carlo Mauri, con  G. Alippi, C. Ferrari, C. Giudici e G. Pirovano, realizzò la prima ascensione del M.Buckland (1966).

    Vi furono anche altre spedizioni, meno importanti.

    In definitiva, gli italiani inaugurarono l’alpinismo nelle Ande Patagoniche e per molti anni ne furono i protagonisti.

  5. 4
    Alberto Benassi says:

    mi vengono in mente:  Armando Aste, Fabio Leoni, Elio Orlandi.

  6. 3
    Renato says:

    Non credi, ma mi dici per favore cosa sai?

    So del fortissimo “patagonico nostrano” (Ermanno Salvaterra), ma non so quante ne ha fatte oltre alle ripetizioni e alle invernali in capsule.
    E chi altro italiano ha conquistato o fatto roba nuova?

  7. 2
    Alberto Benassi says:

    Solo Casarotto e Ferrari sono gli unici italiani che han fatto vie nuove?

    non credo proprio !

     

  8. 1
    Renato says:

    Allora è vero che quasi tutte le vette patagoniche sono state “conquistate” per primi dagli statunitensi e gli italiani hanno fatto pregevoli tentativi più o meno fantasiosi o demoliti.
    Solo Casarotto e Ferrari sono gli unici italiani che han fatto vie nuove?

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