Memoria storica di una via

Caro Alessandro, ti assillo con questo eterno problema sulla chiodatura ma anche sulla professione di Guida che come traghettatore di passioni mi sento di trasmettere al pari del concetto di sicurezza. Questo non vuole essere un articolo ma solo uno spunto per una riflessione su di un popolo con radici che stanno via via per essere dimenticate e, quel che è più grave, alle volte anche percepite in modo errato. Michele Guerrini, 9 dicembre 2017.

Memoria storica di una via
di Michele Guerrini

Lettura: spessore-weight*, impegno-effort*, disimpegno-entertainment**

Era il 1978 e frequentavo da solo un anno la parete di Lumignano (che sarebbe poi diventata la “falesia” di Lumignano) e dopo aver ripetuto le classiche fessura Rossi (Roland, quello della Simon-Rossi al Pelmo), lo spigolo Conforto (Umberto, quello della Marmolada) e qualche via di Campi (Diego, quello dell’invernale allo spigolo Strobel al Bosconero, con Renato Casarotto e Piero Radin) , incontrai proprio lui, Renato Casarotto, un mito per noi vicentini (e non solo credo).

Casarotto ha aperto due itinerari a Lumignano : lo Spigolo (Casarotto-Simeoni) di due lunghezze di corda, che a quei tempi era considerata la via più difficile della parete (VII grado) e la famosa Pancia (come le pance che poi in seguito vennero chiamate bombé come quella della famosa Pichenibule in Verdon…).

Quel giorno vidi salire Renato la sua via su questa parete inizialmente strapiombante, con un’eleganza e una leggerezza incredibili, nonostante fosse un omone alto alto e con il suo peso, assicurato dalla fedele compagna Goretta.

La via era del 1977 e all’epoca era una delle prime (se non proprio la prima) a essere chiodata dall’alto; lo Spigolo era stato aperto dal basso, penso dopo qualche tentativo e con utilizzo di chiodi normali (ancora visibili oggi). L’apertura dall’alto non era cosa che conoscevamo, ma Renato aveva girato il mondo più di noi e aveva visto cose che noi umani non immaginavamo nemmeno… sarebbe stato il sistema di chiodatura di tutte le falesie del mondo.

In arrampicata sulla Pancia di Casarotto, Lumignano

Già Ugo Simeoni qualche anno prima aveva utilizzato chiodi a pressione per salire la “sua” placca che in alcuni tratti era impossibile proteggere con chiodi normali. Così avrebbe fatto Manolo sul suo Totoga e Heinz Mariacher sulle sue prime vie sportive nella valle del Sarca.

Casarotto pensò, chiodò e realizzò la sua via mettendo tre sole protezioni su tutta la linea: la prima a circa 8 metri da terra, un chiodo di acciaio duro in un buco, la seconda ai piedi del passo chiave a circa metà via, un chiodo a U accoppiato con cordino a un chiodo a pressione, e l’ultima a circa 8 metri dalla pianta (che fungeva da sosta come la maggior parte delle soste di Lumignano di quell’epoca), con un chiodo a pressione da solo.

Qualche mese dopo mi sentivo allenato ma soprattutto pronto per provare a ripeterla e, con grande soddisfazione e indossando le mie Asolo Canyon modello Chouinard, raggiunsi quella pianta. Scalare quella via fu un’enorme avventura che mi rimase sedimentata nel cuore e nella mente e che riemergeva ogni volta che la scalavo. Facevamo la Casarotto ogni volta che andavamo a Lumignano ed erano i tempi in cui ormai le altre vie classiche le affrontavamo solo per riscaldamento, spesso slegati e anche in discesa.

Ricordo che salivamo slegati la Conforto (70 metri), poi scendevamo dalla Rossi (70 metri) e facevamo la Pancia Classica (30 metri), che una volta sbucava nel bosco sommitale, per poi scendere dalla Marusca (40 metri).

Dal 1980 iniziai a chiodare anch’io qualche linea nuova e la prima fu Margherita, proprio a destra della Casarotto. Nel luglio di quell’anno provai l’ebbrezza della chiodatura dal basso e l’arrampicata artificiale sui cliff (che erano appena venuti di moda…) e la fatica di piantare quei chiodini a pressione. Ne piantavo uno e poi davo il cambio a Michele Piccolo, mio compagno di avventura, visto che ci volevano almeno 15/20 minuti a chiodo (erano i primi che mettevamo e non eravamo abituati all’uso del punteruolo…). Dalla fine dello strapiombo feci 8/9 metri di arrampicata fuori dalle staffe e arrivai a una bella clessidra.

Alla fine degli anni ‘90 avevo aperto un gran numero di vie e avevo fatto esperienza anche in Verdon, Mouriès e in altre falesie italiane come Cornalba, Finale, lago di Como, Erto, Arco, ecc. ed era comparso nel frattempo lo “spit”. Dopo qualche anno in cui mi sono dedicato ad altri sport, tornai a Lumignano e con mio grande stupore (e dolore), trovai la via di Casarotto completamente richiodata come tante altre vie ogni due metri.

Ho sempre voluto e sperato che il mito di Casarotto non fosse “confuso” in quel modo e messo al pari di tanti insignificanti itinerari e le varie battaglie mi costarono litigi, inimicizie e incomprensioni.

Venerdì 24 novembre 2017 sono andato a Lumignano per occuparmi della manutenzione (ormai sono due anni che lo faccio) delle vie del settore Classica. Per noi Guide Alpine la sicurezza è fondamentale ma è anche nostro compito trasmettere parte della storia (tanto più se si è vissuta in prima persona) e così dopo aver richiodato il primo tiro della fessura Rossi, passando vicino all’ulivo di Mario ho sentito una attrazione mistica e di amore al tempo stesso.

Mi sono calato e ho messo degli ancoraggi inox vicino ai punti in cui Renato Casarotto nel 1977 aveva messo le sue protezioni. Ho lasciato (ovviamente) per ora anche la vecchia chiodatura con l’idea di mettere una targa alla base per conoscenza storica:

Alla sera avevo il cellulare che squillava perché la notizia aveva già percorso parecchi chilometri e qualche giorno dopo era giunta anche alla sede delle Guide del Veneto. A questo punto per deontologia professionale mi sono rivolto a qualche collega (e al presidente del collegio veneto) e all’avvocato delle Guide Alpine ma sono stato rincuorato dal fatto che in presenza della targa non potevo incorrere in denunce penali e che dal punto di vista anche morale la cosa si poteva fare. Ho sentito diversi colleghi tra i quali quelli coinvolti nella stesura del manuale di sicurezza dei siti di arrampicata e il problema ora risulterebbe esclusivamente etico-morale-storico.

Circa un anno fa è stato pubblicato su questo sito GognaBlog un mio articolo che in parte riprende questi temi dal titolo Chiodare… un sogno. Alcuni amici di Ferrara che lavorano in una agenzia pubblicitaria, hanno intenzione di fare un cortometraggio sulla mia figura di chiodatore e a uno di essi, Umberto Tilomelli, ho mandato giusto ieri la notizia della chiodatura “originale” della Casarotto.

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Memoria storica di una via ultima modifica: 2018-01-04T05:23:02+01:00 da GognaBlog

16 pensieri su “Memoria storica di una via”

  1. 16
    Sebastiano Motta says:

    Premesso che, a mio irrilevante parere, Michele Guerrini fa più che bene a ripristinare la distanza originale fra le protezioni della “Pancia Casarotto”, invito, prima di lanciarsi in voli pindarici o nell’ennesima discussione fra sordi sull’uso degli spit, a rileggere quello che Guerrini ha scritto (le frasi fra parentesi quadre e le parole in grassetto sono mie modifiche al testo originale di Guerrini):

    “La via [la “Pancia Casarotto”] era del 1977 e all’epoca era una delle prime (se non proprio la prima) a essere chiodata dall’alto

    [omissis]

    Casarotto pensò, chiodò e realizzò la sua via mettendo tre sole protezioni su tutta la linea: la prima a circa 8 metri da terra, un chiodo di acciaio duro in un buco, la seconda ai piedi del passo chiave a circa metà via, un chiodo a U accoppiato con cordino a un chiodo a pressione, e l’ultima a circa 8 metri dalla pianta (che fungeva da sosta come la maggior parte delle soste di Lumignano di quell’epoca), con un chiodo a pressione da solo.”

    Buona continuazione.

  2. 15
    paolo panzeri says:

    Per me bucare la roccia per mettere delle protezioni, dove prima qualcuno era salito senza bucare, è sempre sbagliato, usavo il termine peccato.

    Se una persona non è capace fisicamente o mentalmente di salire una “cosa” già salita, dovrebbe avere l’umiltà di accettare la sua incapacità.

    Se poi la “cosa” invecchia non si deve illudersi di ringiovanirla, la si stravolge sempre.

    Per me il rischio è la cultura del rischio: richiede valutazione, accettazione e controllo, mai delega ad altro da se stessi.

  3. 14
    Giacomo G says:

    Si e’ partiti per la tangente. Michele sta richiodando ( o semplicemente mantenendo ) le vie a spit di Lumignano classica, una falesia. In questa falesia, alcune vie hanno un valore storico. La Pancia Casarotto non e’ nata a spit, ma con 3 semplici chiodi ( se ho capito bene ). Riportarla a qualcosa di vicino allo stato originario non credo intenda spingere ad accettare il rischio, ma semmai a testimoniare un percorso che ha una partenza ed un arrivo. L’arrivo sono le vie a spit. Non credo si possano salire vie come Boomerang o Mare Allucinante con chiodi normali “aumentando la capacita’ di rischiare”. Ne’ credo che sia necessariamente un valore in se’ accettare di rischiare. Alla fine il rischio e’ sempre un valore personale, poco valutabile collettivamente perche’ non necessariamente ripetibile.

    Inoltre sull’affinamento delle capacita’ con il confort della sicurezza ha detto bene Lorenzo.

  4. 13
    lorenzo merlo says:

    Già.

    Le insospettabili potenzialità dell’uomo non emergono con il conforto dell’assistenza della sicurezza a lui esterna.

    È piuttosto in circostanze di estasi creativa, di essere il fare, di liberazione dall’io timorato che si realizza la sicurezza endogena.

    Private della loro fonte le tensioni svaniscono, la miglior intellingenza motoria si libera, le richieste del terreno sono comprese e opportunamente interpretate.

    Si sale dimentichi di sé stessi.

  5. 12
    paolo panzeri says:

    Forse ciò che ho scritto non si capisce e Renato non può parlare più.
    Per me spit e non spit culture e atteggiamenti diversi che ogni tanto si scontrano perché l’uno vuole invadere il territorio dell’altro e viceversa, o forse si sfiorano.
    Lo spit spesso oggi viene usato per facilitare l’impegno mentale con la giustificazione della sicurezza. Chi non mette spit  oggi viene visto come persona che vuole umiliare gli spittatori , o come un incosciente, o come un bullo.
    Per me è il solito uomo che si esprime secondo le sue idee e capacità.
    Tranne che per gli sviluppi tecnologici non vedo nulla di nuovo, forse una specializzazione più spinta, ma di sicuro continuo a vedere un globale abbassamento della capacità di rischiare, giustificandola con la possibilità di alzare il grado di difficoltà.
    Sembra come per le automobili nelle quali si sviluppa una enorme assistenza alla guida e i guidatori quasi non sanno quasi più guidarle e allora si preparano le auto-automobili.

    Si va perdendo il piacere di imparare a fare cose bene….. e la storia viene adattata.

  6. 11
    paolo panzeri says:

    Peccato. Mi dispiace che certi valori siano stati persi negli ultimi trent’anni. Qualche giovane però e per fortuna li sta riscoprendo. Penso ci vorrà molto tempo per riconoscerli.

    Pier Verri nel suo blog spiega un pò meglio come stanno le cose, specialmente all’inizio del suo ragionamento.

  7. 10
    Federico says:

    Carissimo Mic,

    Forse come dice qualcuno, la “pancia” non tornerà mai ad essere quello che era: ma un restauro fatto bene rende onore, molto più, che una sterile copia.

    Da frequentatore del luogo (oramai ex, visto che da un po’ non vengo più a scalare in “classica”) non posso che dare credito a quanto hai fatto e te lo dissi lo scorso anno quando ne discutemmo. Ho sempre guardato con un po’ di invidia chi ha avuto la fortuna di vivere l’alba dell’arrampicata, quando il sapore della conquista si fondeva perfettamente con quello dello sport e dell’autocontrollo. Per questo mi affascina ancora l’alpinismo classico e la ricerca di itinerari demodè…. però una cosa resta innegabile: siamo e saremo sempre meno ad apprezzare questo tipo di salite, dove prima viene il cuore, poi la testa e solo dopo i muscoli. Lo dico con dispiacere ma ora su tutto la sicurezza, poi la prestazione numerica, poi i muscoli, poi il cervello e forse in fondo in fondo laggiù il cuore. E l’avventura? Quella, da tempo, è stata seppellita. Per i più, ma non per tutti.

    Bravo Michele, ben fatto.

     

  8. 9
    Guerrini Michele says:

    Vedo l’arrampicata anche come valore di RINUNCIA che l’essere umano da tempo sta perdendo. Se non si è in grado o all’altezza o in qualche caso non allenati per affrontare alcune situazioni non siamo OBBLIGATI ad affrontarle tantopiu’ se vi è anche un margine elevato di rischio.

    L’arrampicata non è riconducibile SOLO ad una cifra seguita da una lettera (grado) ma anche ad emozioni, sogni, progetti ed esperienze consapevoli che ci donano dei valori aggiunti alla nostra vita di tutti i giorni.

  9. 8
    Guerrini Michele says:

    Penso che se l’arrampicata è giunta ai livelli attuali è anche grazie all’opera e alle idee di chi,prima di noi,ha segnato una strada, un cammino, con un etica e dei valori. L’errore è stato fatto nella prima richiodatura degli anni novanta ( il  “boom economico” e  “consumistico” dell’arrampicata) non tenendo conto del valore intrinseco di alcuni itinerari che hanno fatto la storia e non penso solo a  Lumignano ma anche in Totoga,Arco ( fessura kosterliz? )vie magari di Cozzolino, Comici ecc.

    La mia idea è semplicemente di togliere un 6B come ne esistono a migliaia e RI-regalarlo alla storia riportandolo come Casarotto lo aveva pensato….( credo che basti la sola distanza tra le protezioni in quanto il contesto ambientale non è cambiato, la sosta inox non fa la differenza con una pianta che negli anni è pure cresciuta…)

  10. 7
    Giacomo G says:

    Principi condivisibili ma scelta intrisecamente incompleta: gli spit inox per quanto distanziati NON riportano la via allo stato con cui e’ stata aperta. L’esperienza per chi la sale non sara’  quella originaria, rimarra’ essenzialmente la testimonianza della posizione dei punti.

    Diverso sarebbe il caso se l’attrezzatura originale fosse ancora in loco. Allora rimuoverei senza dubbio gli spit della prima richiodatura.

    Cosi’ invece ne vale la pena ?La frequentazione ovvio, si ridurra’ drasticamente, forse questo e’ indirettamente lo scopo.  Ognuno si fara’ la propria idea…

  11. 6
    andreaP says:

    Condivido pienamente sia la scelta di M. Guerrini che lo scritto di S. Michelazzi.

    In quegli anni si saliva così, senza preoccuparsi troppo, la Casarotto come difficoltà era già stata superata di gran lunga da tante vie panciute simili, la befana, margherita, ecc… per cui non era un grosso problema salirla così, era una bella soddisfazione ma senza patemi.  Lasciamola così, un gioiellino storico per chi sa apprezzare;  ce ne sono tante altre vie da salire…

  12. 5
    Alberto Benassi says:

    “Per ultimo, chi porta cambiamenti di questo tipo non gestisce solo le sue esigenze e la sua esperienza ma anche  quella di tutti gli altri, questo lo trovo inaccettabile.”

     

    INECCEPIBILE !!

  13. 4
    Alberto Benassi says:

    caro Gino ben detto !!

     

    Un restauro ha senso ed è fatto bene se si rispetta l’originalità dell’opera. Altrimenti non è un restauro ma una trasformazione, un cambiamento.

  14. 3
    Michele Comi says:

    Grazie Michele per il tuo contributo. Prendere coscienza che la cultura del “controllo” sistematico dell’arrampicata in falesia, possa risparmiare pochi e selezionati itinerari storici non è cosa di poco conto.

  15. 2
    Gino says:

    La manutenzione e la richiodatura di vie storiche ha sempre suscitato problemi un po ovunque. Dal mio modesto punto di vista, non si può ridurre la questione ad un problema di tipo “morale” e cavarsela con una targa. Né mi sembra una soluzione richiodare una intera via storica, comprese soste con inox e catene, lasciando anche i chiodi originali. Superare un passaggio sapendo, nella carne, di avere la possibilità di renderlo meno impegnativo (Da ogni punto di vista) assicurandosi a protezioni extra o sapendo di poter ripiegare in qualunque momento calandosi su una solida sosta inox + catena, cambia completamente l’esperienza della salita. Anche senza usufruire delle protezioni extra, il semplice fatto che abbiamo alterato irreversibilmente il contesto ambientale della via, contesto che sta a fondamento della esperienza porgendo possibilità che prima non c’erano, trasforma l’esperienza in gioco. Possiamo girarla come vogliamo, richiodando e riorganizzando le soste di un itinerario storico finiamo inevitabilmente per renderlo altro. Che poi sia legittimo o meno è un’altra questione. Per ultimo, chi porta cambiamenti di questo tipo non gestisce solo le sue esigenze e la sua esperienza ma anche  quella di tutti gli altri, questo lo trovo inaccettabile.

  16. 1

    Un tempo c’era solo lui…l’alpinismo…

    Poi arrivò lei…l’arrampicata sportiva… e su quelle rocce di fondovalle impose le sue nuove regole.

    “Die Frau ist der Ruin des Apinismus” così parlò Paul Preuss.

    In alpinismo il rischio è un fattore fondamentale, nasce non solo come esplorazione ma anche come sfida malgrado oggi ci sia chi, spesso per propria incapacità, riscriverne le regole. Potremmo scrivere o parlare per ore ed ore sull’argomento ma ha senso farlo per il sesso degli angeli?

    L’arrampicata sportiva è puro piacere di arrampicare e la sfida si evince nel superamento atletico della difficoltà pura.

    Come Guide Alpine, è vero, siamo eticamente e deontologicamente volti verso quello che viene definito “abbattimento del rischio”, consci certamente che il rischio zero non esiste ma sempre attenti a limitarlo ai minimi termini. Ciò non toglie che sempre eticamente e deontologicamente non siamo anche volti verso il rispetto della storia, della quale siamo ormai detentori da secoli.

    Prova ne sia che a pagina 70 delle Linee guida per la creazione e/o risistemazione delle falesie, che ad oggi è l’unico documento ufficiale ed accreditato in questo ambito si legge:

    “Nella riattrezzatura della falesia si terrà anche conto della sua storia e della logica

    utilizzata dai chiodatori originali, evitando il più possibile di snaturarla, qualora ciò non
    comprometta la sicurezza dell’itinerario. A tal riguardo è auspicabile il coinvolgimento dei
    vecchi chiodatori e frequentatori abituali per la condivisione delle scelte progettuali.”

    La targa c’è, la responsabilità di salire quel tiro ora spetta solo a chi vorrà provarci e provarsi, quella responsabilità che in nome di una falsa sicurezza sempre più si vuole scaricare a qualcun’altro o a qualcosa di superiore in questa società che del rispetto in molti campi sta perdendo la concezione del significato.

    Ci sono tanti tiri a Lumignano, tantissimi, uno in meno non porta via niente a nessuno, ma ridà sicuramente valore a chi da lì è passato, un valore storico che si era perso e che come Guida Alpina eticamente e deontologicamente hai ridato ai posteri!

    Complimenti!

     

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