Storia dell’arrampicata romana – 2

Storia dell’arrampicata romana – 2 (2-4)
di Luca Bevilacqua
(già pubblicato nel 2010 da climbing pills)

Capitolo 6
Chi ha arrampicato anche solo una volta a Sperlonga, sa che le falesie non ci azzeccano molto con il paese di Sperlonga…

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La località si chiama “Piana di Sant’Agostino”.
C’ero stato da piccolo, una settimana di agosto, con mio padre e mio fratello. E con la giovane compagna di mio padre. I miei si erano separati forse da un paio d’anni.
Mi ricordo benissimo quell’estate per due motivi. Anzitutto sbirciai lei nuda mentre si faceva la doccia sul lato esterno della casa. Secondo, imparai a catturare le mosche con la mano. Esperienze fondamentali per un bambino di otto o nove anni…
Avevamo affittato una casetta di quelle tipiche di là, abusive, proprio all’inizio della strada che si fa adesso per andare all'”Occhio del sole” o al “Pueblo”.
So che non c’entrano niente queste cose con la “storia dell’arrampicata sportiva romana”, ma tant’è… Mi sono venute in mente ripensando alla questione delle case.
Sì, le case sono un argomento fondamentale per quella storia.

Patrick Berhault, in quegli stessi anni, sul Toit d’Augere, Col des Aravis
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Sperlonga è abbastanza lontana da Roma, diciamo un paio di ore. Fin dalle prime volte pensai: “Certo, sarebbe bello affittare una stanza qui, e piazzarcisi una settimana. Arrampicare tutti i giorni!”.
Poco tempo dopo seppi che l’idea, ovviamente, era già venuta a qualcun altro. I primi ad affittare una casetta nella zona subito dietro al Mozzarellaro erano stati Bruno Vitale, Andrea Di Bari, Stefano Finocchi, Fabio e Cristiano Delisi, Enrico Jovane e Roberto Ciato.
Mi ricordo distintamente che una domenica mattina, verso la primavera del 1985, arriviamo a Sperlonga e troviamo Stefano, ancora assonnato, che fa colazione da Guido. Ci dice: passiamo da casa, che devo prendere il materiale per scalare…
La prima casa fu davvero storica, mitica. Dire che era fatiscente è dire poco. Ricordo delle stanzette minuscole, lettini con reti sprofondanti, e brande, con sopra i sacchi a pelo. La porta del cesso era una porta di ascensore. Il sottotetto era in polistirolo. Disordine, un po’ di sporcizia.
Però intanto era una casa.
Stefano e gli altri restavano lì qualche giorno di seguito, talvolta anche in mezzo alla settimana, e poi tornavano a Roma. Così avevano tutto il tempo di spittare e provare le vie nuove.
Per almeno due o tre anni, a Sperlonga (come – immagino – in altri posti) si è chiodato interamente a mano, senza trapano, con spit da 8 mm. Stefano, bisogna dire, ha fatto in questo senso tantissimo. La Parete del Chiromante e la fascia superiore sono per larga parte una sua invenzione. In molti hanno collaborato, ma Stefano è stato sicuramente, all’inizio, quello che ha piantato più spit.
A partire dall’autunno 1984 è venuto alla ribalta il gran lavoro di Bruno Vitale e dei suoi amici: Furio Pennisi in primis e, più tardi, Piero Priorini e qualche altro che ora dimentico. Se Stefano chiodava dove vedeva liscio e strapiombante, Bruno sceglieva invece delle zone della parete che si prestavano a difficoltà più abbordabili. Sono nati così il settore di Re Artù e poi, due anni dopo, gli avancorpi del Monte Moneta. Tuttavia, proprio riguardo Re Artù (una delle vie “facili” più famose di Sperlonga), furono Stefano e Bruno insieme gli artefici, salendo la via dal basso…
Andrea Di Bari fu invece il primo a capire quali potenzialità, e quali bellezze di arrampicata, si celassero nei tetti (non troppo numerosi) di Sperlonga, ma anche di Leano (che fu per qualche tempo rivalorizzata) e poi del Moneta. Andrea fu, tra l’altro, il primo, almeno che io ricordi, a usare da noi il trapano.
Dopo la “preistoria” di Stati di allucinazione (6c+) a Leano, vennero gli Stati di acciaiazione (7b) sempre a Leano, e poi Suspiria (7b+) e Inferno (7c) a Sperlonga, e la libera del primo tiro della Pietro Ferraris (7b+) al Moneta… Furono, per la mia generazione, forse le più belle vie di riferimento. Andrea era stato contagiato, in questo suo amore per tetti e strapiombi, nientemeno che da Patrick Berhault. Che non a caso era venuto giù a Sperlonga proprio nel 1985. E di Sperlonga disse: la roccia assomiglia incredibilmente a Montecarlo!
Ovviamente in quell’occasione Andrea e Patrick arrampicarono insieme. Ma questo lo racconterò in un’altra puntata…

Capitolo 7
A ottobre (siamo sempre nel 1984) ci fu l’incidente di Fabio.
Stavamo a Leano, attrezzando una via nuova su Punta Giovanna, zona Ingegneri. Io ero legato dall’alto (secondo la tecnica “moderna”…) e stavo piantando a mano uno spit, a circa 8 metri da terra. Fabio stava sotto ad aspettare. Però non era precisamente sul sentiero, perché l’attacco della via era posto in cima a una specie di zoccolo, o se volete a dei gradoni di pietra.
Mentre io smartello con il percussore, Fabio fa qualche traverso per passare il tempo e osserva la parete sopra di noi. Improvvisamente una scaglia che teneva con la mano vien via, e lui rotola giù per 6-7 metri. Alla fine c’è un salto nel vuoto di altri 3 metri, e Fabio sbatte la testa.
Perde i sensi, dopo qualche secondo rinviene. E’ ferito.

Le torri di Leano, vicino Terracina
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Io sono bloccato (da un nodo fatto a terra da Fabio) e sto con la corda in tensione in mezzo alla parete. Non posso manovrare, non posso calarmi. Comincio a chiamare aiuto. A Leano siamo soli, eccetto le due persone con cui siamo venuti, e che in questo momento sono lontanissime e non mi sentono.
Penso che devo uscire dall’imbraco e scendere in arrampicata. L’imbraco e la corda sono in tensione, ci sto dentro con il mio peso, e la manovra sembra, a rigor di logica, impossibile. Però faticosamente ci riesco. Mi sfilo fuori. Riscendo arrampicando quegli 8 metri, pensando che non devo assolutamente cadere, e mi precipito da Fabio, che sta seduto e si lamenta. Ha una grande macchia di sangue poco sopra la tempia.
Penso: qui dobbiamo scendere, devo portarlo giù alla strada. Lui resta cosciente tutto il tempo, ma non ce la fa a stare in piedi.
Penso: in queste situazioni di pericolo, tra la vita e la morte, ti viene una forza micidiale: ora me lo carico sulle spalle e lo porto giù per il ghiaione. Sì, ce la faccio, ce la devo fare!
Ma invece no, non ce la faccio. Mi sento debole, ho paura. Riesco a malapena a sorreggerlo, prendendo il suo braccio e tenendolo per la spalla.
Lui fa il possibile. Cominciamo a scendere. Sono venti, trenta minuti di inferno. Cadiamo, scendiamo col culo sui sassi come fosse uno scivolo, ci rialziamo, ci ributtiamo giù. Maledetto ghiaione.
Mi sono odiato per quella mancanza di forza fisica, ma per fortuna Fabio ce l’ha fatta a restare sveglio e farsi trascinare giù da me.
Sulla strada, la prima macchina che passa ci vede con i vestiti stracciati e sporchi di sangue, il tizio va nel panico, lo imploro di portarci a Terracina, ma lui se ne va.
La seconda macchina ci carica. Arriviamo all’ospedale di Terracina. Fabio è preso in cura dai medici. Lo porteranno poi al S. Giovanni. Il trauma cranico è grave, ma tutto andrà bene. Gli rimarrà una placca in testa, in ricordo di quella merda di giornata.
A Terracina, dall’ospedale, telefono finalmente a mio padre: bisogna avvertire i genitori di Fabio. Comincio la telefonata dicendo: “Papà, questa è la telefonata che non avrei mai voluto farti. Abbiamo avuto un incidente…”

Capitolo 8
Come si dice: dopo la caduta bisogna subito rimontare a cavallo.
La domenica successiva andammo con Lorenzo a recuperare il materiale lasciato lì, e poi, qualche tempo dopo (aprile 1985), la via fu terminata. Credo che non abbia avuto nessuna ripetizione. Anche il nome è rimasto sospeso: Kamasutra. L’urlo del pipistrello. Due nomi brutti… Entrambi terribilmente brutti. Ma nella vita ci possono stare gli errori. Altroché.
Nelle settimane che seguirono, Fabio dovette affrontare una lunga convalescenza. Io non avevo smesso di friggere nella mia smania di scalare, di migliorare.
Una sana invidia stava silenziosamente crescendo in me per quelli là, gli “sperlonghiani”.

Il Moneta la mattina. Foto: livellozero
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Avevano tutti ampiamente passato i diciott’anni. E dunque avevano la patente e la macchina (per andare ad arrampicare). Avevano la fidanzata, o comunque potevano vantare qualche esperienza sessuale. Io, né l’una né l’altra. Anzi, più passavano i mesi e più sentivo come un’oscura vergogna – a diciassette anni e poi ormai (a novembre) diciotto – non aver ancora infilato le mani sotto la maglietta di una ragazza, non aver giocato con nessuna a rotolarsi sulla moquette levandosi i vestiti, quando i genitori sono fuori di casa…

Ma quel che maggiormente invidiavo ai più grandi era proprio quel potersene stare lì, a Sperlonga, in mezzo alla settimana, dormendo in quel topaio di casa, mentre io ero costretto ad andare a scuola: invidiavo – in sostanza – quella libertà, quell’indipendenza dai genitori che rappresenta l’universale orizzonte di utopia di ogni sano adolescente…
Certo, invidiavo anche le loro capacità arrampicatorie. Ma in questo caso era più ammirazione che invidia. E ragionevolmente pensavo che, arrampicando io soltanto un giorno a settimana, non avrei mai potuto colmare quel divario.
Dopo l’incidente di Fabio, e il suo progressivo allontanamento dall’arrampicata, trovai un nuovo compagno di cordata…
Quinta ginnasio del “Giulio Cesare”, dunque tre anni meno di me. Insomma un pischello… Si chiama Maurizio. Subito soprannominato Maurizietto, e più tardi, a causa di alcune sparate, “er Tozzo” (“Oh, hai visto quello? Mi ha guardato male! Adesso vado lì e gli meno!!!”).
Il Tozzo, bisogna precisare, non era l’unico “tozzo” in circolazione. Era il periodo in cui a Roma era pieno di “tozzi”: era una generazione, una moda (che prevedeva – ad esempio – un piumino Monclair, i Levi’s 501 un po’ larghi, e non so più quali scarpe…).
I “tozzi” erano praticamente dei “coatti” un po’ acchittati e stereotipati.
Ma torniamo a noi. Nel frattempo avevo stretto amicizia con un mio coetaneo, Ignazio Tantaillo Tantillo: anche lui fa il liceo classico, al “Mamiani”, ha fatto il Corso di roccia un anno prima, nel periodo in cui io avevo cominciato con Lorenzo e Fabio.
Ma soprattutto: Ignazio conosce Jolly
Chi è Jolly?
Ah vabbé… Oggi è facile dire chi è Jolly. Ma bisogna vedere chi era nell’inverno ’84-’85…
Alessandro Jolly Lamberti era un po’ più grande di noi. Aveva fatto il corso CAI qualche anno prima. E s’era beccato quel buffo soprannome da Luca Grazzini, suo istruttore, il quale diceva che quel ragazzino magro poteva salire da secondo su qualsiasi via lo avessero portato durante il corso. Per cui era come un “jolly”…
Io ero da poco diventato amico di Ignazio, che era amico di Jolly, che era amico di Stefano Finocchi.
La faccenda si faceva (per me) interessante.
Ai primi di dicembre 1984 parlo con Ignazio: si prospetta un week-end che resterà scolpito nella mia memoria.
Il giorno 8 è sabato, Immacolata Concezione: non si va a scuola! Decidiamo di andare due giorni, 8 e 9, a Sperlonga con le tende! (Le tende che verranno piazzate nel parcheggio del Mozzarellaro… Altri tempi…).
Ignazio mi dice: “Ho parlato con Jolly. Mi ha detto che prende il “calesse”, la macchina di suo padre… Con te e l’amico tuo Maurizio siamo in quattro. Va benissimo”.
Senza il mio fido capocordata Fabio, e con Maurizietto quindicenne (e alle prime armi), mi tocca andare da primo. Ignazio, per tutto il week-end, fa cordata con Jolly. E con notevoli vantaggi, visto che Jolly si tira già disinvoltamente tutti i 6b, 6b+ e 6c di Sperlonga. Così Ignazio, che forse arrampica un po’ meglio di me, ma comunque è più o meno sul mio livello, ha la possibilità di andare a fare, seppur da secondo, Serena alienazione, Peek a bou, Prondo prondo…
Il tempo è splendido. Sapete immaginare due meravigliose giornate di sole, a Sperlonga, in dicembre?
Con Maurizio ci facciamo le vie – nuove nuove – del settore di Re Artù, poi lo Spigolo, Messico e nuvole. La domenica mi tiro Picchiami sulle bolle con il Bombamento. A fine giornata Ignazio finalmente si decide a trasmettermi qualcosa di questa catena decrescente Stefano-Jolly-Ignazio, e mi porta a fare il primo tiro del Ritorno di Paperoga, 6a+ (ex 6b-!). Passo bene. Ignazio mi dice bravo, e io mi sento fiero. E soprattutto felice.
In macchina, sia all’andata che al ritorno, Maurizio racconta ininterrottamente aneddoti verosimili o, più spesso, improbabili (resta famosa l’auto, progettata a suo dire negli Stati Uniti, con il pilota automatico…). Jolly parla pochissimo, ma sembra molto divertito, sia dalle scemenze che dice Maurizio, sia dai commenti di Ignazio, che ha un umorismo (a volte involontario) irresistibile.
Un paio di esempi di quest’ultimo. “Oh, Luca! Ma tu stasera in tenda come dormi? Cioè, voglio dire, stai tranquillo? Perché io non mi fido mica, e dormo con il martello (da roccia) vicino a me, perché di notte possono venire i cani selvatici o i sauri! (vipere, NdA)!”.
Sul sentiero che va alla falesia, sotto il sole cocente: “Luca, vai avanti tu! Ché ci possono essere i sauri… Io comunque mi preparo un bel sercio abbastanza grosso e ignorante da tenere in mano. Oh! Piglia pure te il sercio! Però vai avanti tu!”.

Andrea Dibba Di Bari
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Capitolo 9
Visti da vicino. (Per come li ho visti io, e dunque senza pretese di verità…)
Alessandro Jolly Lamberti, per lo più silenzioso, quasi timido. Alto, capelli lisci abbastanza lunghi. Ovviamente magro. La metà della metà dei muscoli che ha oggi. Assolutamente dimesso nel parlare di arrampicata e di gradi. Non fa nulla per stare al centro dell’attenzione. Ha vent’anni. E’ iscritto a Fisica. Arrampica spesso con Stefano, ma anche con Ignazio. Ha uno stile impeccabile, senza colpi a effetto. Macina vie su vie, migliorando sempre.
Stefano Finocchi, allegro, simpatico, col sacro fuoco per l’arrampicata. Il suo ritornello è: “ho spittato una pancia di 7c!”. Però né Blues per Allah, né Baby snake, né Polvere di stelle, né Elisir saranno 7c! Non vede l’ora di alzare il livello di arrampicata, non soltanto il suo, ma quello della falesia… Arrampica quasi a tempo pieno. E’ un pochino più alto di Jolly, e un pochino più grande (un anno in più), capelli neri e ricci. Grande scioltezza di bacino, da far invidia a Edlinger. Fortissimo di dita. Ha una mentalità un bel pezzo davanti agli altri.
Enrico Jovane è quello che, a vederlo, arrampica meglio di tutti. Ha uno stile ineguagliabile. Sale sul 6b/6c come fosse quarto grado. Però in confronto a Stefano prende tutto con grande leggerezza, quasi con distacco. Si vede che non è sua intenzione dedicarsi all’arrampicata più che a tante altre cose. Allenarsi? Non ci pensa nemmeno. Ma sul suo talento innato sono tutti d’accordo… Da un certo punto in poi (1986) non lo vedo più.
Andrea Dibba Di Bari, scatenato, trascinatore, carismatico. Anche lui vede molto oltre il nostro orizzonte di poveri neofiti. Quando arrampica capti la sua voglia, quasi una rabbia, di non mollare mai la roccia, di salire più su. Capelli lunghi, occhiali da sole, magrissimo. Ha anche lui qualche anno più di me. Ma parla come se avesse vissuto già due vite. Ha una fidanzata molto carina, americana. E’ uno che tiene banco, e ci fa ridere a crepapelle parlando di cose sentimentali e/o di sesso. Però imparo da lui quasi più in quella materia che non nell’arrampicata.
Bruno Vitale, amico (direi quasi un fratello) di Andrea. In coppia a biliardino non li batte nessuno. Andrea è il fratellino discolo e irriverente, Bruno il fratello maggiore, paziente finché ci riesce. Persona semplice e generosa, pensa che spittare vie è una cosa che si fa anche per gli altri. Sa un mucchio di cose, ma non te le dice. Preferisce l’ironia. Cerca e trova: s’inventa letteralmente dei settori di Sperlonga che nessuno aveva visto…
Angelo Monti a Sperlonga lo vedi raramente. Molto alto, occhiali, sorriso semplice di chi è buono. Non parla quasi mai sul serio: sempre ironico, e molto auto-ironico. Ai miei occhi incarna il mito di uno dei primi settimi gradi romani: il Pulpito al Morra. Un’estate, in Verdon, rifiuta lo spinello che gli offriamo, e – alludendo al vino bevuto la sera prima – dice: “Oggi sento di avere delle tracce di sangue nella circolazione alcolica!”. Stralunato.
Maurizio Tacchi, old generation (si fa per dire!), che però a un certo punto molla la montagna e s’infiamma unicamente per l’arrampicata… Anche lui in apparenza dimesso, silenzioso, ma sotto sotto è un animo appassionato. Coltiva una passione totalizzante per Bruce Springsteen. Ha un bellissimo stile di arrampicata. A un certo punto (1986) comincia ad allenarsi con metodo e mette su una forza spaventosa… Ineguagliabile tombeur de femmes. Però questo lo racconterò con calma. Per un certo periodo si lega molto ad Andrea, poi i due si allontanano. Troppo forti per formare una cordata! Dove sta adesso, non lo so…
Roberto Ciato, come Maurizio, come i Vermi, viene dall’alpinismo. E all’inizio l’arrampicata sportiva sembra prenderlo relativamente. E’ un amicone, uno con cui vai subito d’accordo. Molto amico fra l’altro, anche lui, di Andrea. Mi ricordo che quando lo conobbi dovevo dirgli io i nomi e i gradi delle vie di Sperlonga: ero fissato e mi studiavo attentamente tutto, compresi i passaggi, appiglio per appiglio. Ma a uno come lui venivano subito, naturali… Qualche anno dopo s’è attrezzato un garage che è stato la prima palestra artificiale di arrampicata dei romani. Si andava da lui! E lui allenandosi è diventato forte, fortissimo… Senza mai vantarsene.
Giovanni Bassanini, giocherellone, sempre a scherzare, a prendere per il culo. Lo incontravo a Ciampino, dove faceva cose mostruose con una facilità sconcertante… Saliva e scendeva slegato di qua e di là, incurante dei rischi. Fortissimo di dita e di braccia. Resuscitato (o miracolato) dopo un volo enorme al Monte Bianco, ha ripreso a fare trazioni quand’era ancora a letto in ospedale. Poi lo abbiamo visto sempre meno quaggiù, ed è andato a vivere a Courmayeur.

E ora facciamo scrivere qualcun altro, il Jolly. Diversi personaggi presenti in questo paragrafo sono citati in precedenza; il Dibba è Andrea, il narratore di questi due pezzi che seguono è Jolly, il Finocchi è Stefano, Medioverme è già stato citato in alcune puntate precedenti, e Bibo… indovinatelo voi!

Il Dibba
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Intermezzo 1 (di Alessandro Jolly Lamberti)

A) Intanto dentro la casa, oltre a Ignazio e al Dibba, si erano riuniti anche il Tozzo, Bibo e i Vermi.

Il giorno prima c’era stata una grossa battaglia con i raudi (sorta di piccoli petardi). Il Dibba amava i raudi, il botto forte e secco che facevano, non come le scoreggette dei fuochi d’artificio o delle miccette. Il raudo era come una bomba. E soprattutto il Dibba amava lanciarli dentro casa. Allora si che il botto riusciva quasi a stordirti. La sera prima aveva cominciato lanciandone due sotto al divano dove era seduta xxxx. Che ovviamente si era incazzata. Poi in un attimo il piccolo corridoio si era riempito di fumo perché lui aveva cominciato a lanciarne a cadenza costante. I Vermi si erano asserragliati dentro una stanza, ma non avrebbero resistito a lungo. Il più pericoloso, oltre a lui, era il Savini. Mentre il Dibba stava cercando di infilare le bombe sotto la fessura della porta, lui stava aggirando la casa alla ricerca della finestra della stanza. A un certo punto la battaglia si era conclusa perché il Dibba voleva conservare un po’ di munizioni per dare il buon risveglio a qualcuno la mattina seguente.

Nella casa c’era ancora puzza di zolfo e grosse chiazze nere macchiavano il pavimento e la base dei muri. Il proprietario, un contadino del posto, soprannominato ’’zolla de tera’’ era talmente rozzo che neppure si sarebbe accorto delle modifiche alla tinteggiatura della sua bella casetta abusiva.

I discorsi presto divennero filosofici.
Andrea, per noi bamboccioni, era un maestro di vita, e ascoltavamo sempre divertiti e con attenzione i suoi aforismi.
Si discuteva di estetica.
– L’importante è che le bocce siano grosse – disse Ignazio – senza tutte quelle stronzate sulla forma, la consistenza, le proporzioni, importante è che abbia tette grosse e che parli poco.
– E’ un po’ come per il cinema, un film è un bel film se c’è un alto volume di fuoco, è spettacolare e con pochi dialoghi che ti appallano.
– Insomma una tettona che parli poco ma che sappia fare bene i pompini – interruppe Medioverme, che pur essendo il più piccolo era anche uno dei più trucidi.
– Non dico che non debba essere intelligente – replicò Ignazio – dico che debba essere silenziosa.
– State fuori strada – cominciò il Dibba, autorevolmente.

Stefano Finocchi su La Moda del Pesce, Sperlonga (da Flippaut di Fulvio Pennisi)
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Tutti ci voltammo verso di lui ad ascoltare attenti.
– Le tette contano, ma non sono fondamentali – proseguì scandendo con particolare enfasi f-o-n-d-a-m-e-n-t-a-l-i.
– Cosa è fondamentale? – chiese Bibo.
– Pensate a una ragazza bellissima, labbra carnose, culo come quello della pubblicità di Roberta, gambe perfette, ecc. Vi arraperebbe pure se avesse due ciliegine acerbe al posto delle tette.
– Sì, è vero, quello che conta è il culo – azzardò qualcuno.
– No. Allo stesso modo, se vedete una femmina perfetta, ma col culo un po’ piatto o basso vi ci ammazzate di seghe al solo pensiero tutte le sere. Una col culo piatto o dritto può anche essere una fica.
– Dovete pensare a una caratteristica che da sola faccia crollare tutto il resto.

Una condizione che non sia necessaria, ma sufficiente per la bruttezza – pensai; ma mi guardai bene dall’esprimere tale giudizio saputello.

Il Medioverme disse una porcata, ma nessuno la registrò, perché tutti pendevamo dalle labbra del Dibba.

– Le caviglie – pontificò Andrea – può pure avere tutto perfetto, ma se c’ha i caviglioni che scendono giù dritti e grossi come una lonza, la sera non le dedicherete neppure una pippa. E il più delle volte neppure saprete razionalmente perché non vi piace. Magari le due lonze le ha nascoste sotto dei jeans a tubo o degli scaldamuscoli fucsia, ma il vostro corpo lo sa, lo sente, magari ve la sposate pure ma non vi arraperà mai veramente – concluse.

E’ vero, le caviglie, e chi ci aveva mai pensato.

– Quello con cui stava prima la mia fidanzata – disse qualcuno -aveva due caviglie che sembravano due tronchi di quercia. Dici che a lei quello non la attizzava?
– Seee… te piacerebbe – replicò Andrea col suo sorrisetto cattivo – per le donne è diverso, l’arrapamento può partire anche solo per motivi intellettuali o semplicemente perché lui la fa sentire brava e la gratifica spesso. Le donne cercano chi le gratifica, per questo i viscidoni hanno successo.
– Ma soprattutto – dal tono si capiva che stava per sparare una delle sue massime – mai mai mai mai m-a-i farsi raccontare e m-a-i neppure pensare a quello che ha fatto la tua donna con il suo ex, è la cosa peggiore che puoi fare.
– Capito – disse Bibo.
– Come si fa a non pensare a una cosa? – chiesi io, che fino a quel momento ero stato zitto e in disparte – io quando decido di non pensare a una cosa ci penso ancora di più.
– Basta che ti metti a fare qualcosa – concluse secco il Dibba.
– Fare qualcosa. Fare qualcosa – ripetei mentalmente, cercando di memorizzare.

Il Finocchi
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B. In quel periodo il Finocchi percorreva la via Pontina fino a Sperlonga come un pendolare che deve andare in fabbrica a timbrare il cartellino. Senza ipocrisie, senza far finta di fare qualcos’altro, lui scalava. Abitava con la famiglia in un grande appartamento a Primavalle. Il padre, commerciante di vini e spumanti, aveva fatto abbastanza soldi lavorando sodo, e ora permetteva al figlio di impegnarsi a fondo nell’attività in cui era bravo e che amava. Probabilmente voleva permettergli ciò che a lui non era stato permesso, e per questo gli dava una discreta paga mensile, quasi uno stipendio, per scalare e basta. C’era una specie di accordo tra i due: dopo dieci o dodici anni di scalata, il figlio si sarebbe messo a lavorare con lui a vendere Spumanti. Stefano, al contrario di me, era estroverso, amichevole, disinibito; la sua vitale e frizzante energia ti accoglieva e ti metteva a tuo agio, ti faceva divertire, sempre, senza recitare ma semplicemente essendo se stesso. Piaceva a tutti, era una di quelle rare persone di cui potevi veramente godere la presenza come a uno spettacolo di fuochi d’artificio. Lui e il Tantaillo erano i più simpatici di tutti, nel senso letterale del termine, e assieme erano irresistibili. Con il giusto accompagnamento Stefano poteva fare qualunque cosa, compreso un discreto numero di atti vandalici. Era l’unica persona che conoscessi ad avere una alimentazione più sregolata della mia, e nulla gli faceva schifo. Tutti lo amavano. Tranne uno. Che invece lo odiava. Ma era un’altra questione. Era una questione di rivalità. Non si trattava di donne, ma erano pur sempre pulsioni darviniane e primordiali. Il controllo del territorio. E il territorio erano le pareti di scalata intorno a Roma: loro due tracciavano ogni settimana itinerari che dovevano essere sempre più duri di quello dell’altro, i chiodi che piantavano in parete erano come il piscio acre e acido dei felini in calore, servivano a marcare il loro territorio, i confini del loro regno. La tribù era appena nata, e già si erano formate due faide: da una parte il Finocchi, dall’altra il Dibbari. Io mi stavo formando nel mezzo, approfittando di quella rivalità, ma sempre rimanendo abbastanza nell’ombra, cominciavo a ripetere le loro vie più dure, da una parte e dall’altra. Loro aprivano nuove vie difficili, l’uno per superare l’altro, e io mi trovavo sempre nuovi progetti senza dovermi sporcare le mani piantando chiodi in parete. “E’ un lavoro da carpentiere”, dicevo con la mia erre un poco moscia. Pur restando sempre dalla parte di Stefano, il Dibbari comunque mi accettava, non perché facessi il doppio gioco, ma perché a diciannove anni ero una persona assolutamente innocua, quasi autistica, e provare antipatia per me sarebbe stato come provare antipatia per un orsetto di peluche. Neppure quel cagnaccio di borgata del Dibba era capace di tanto. A peggiorare le cose tra lui e il Finocchi c’era la differenza di status economico. Il Dibbari veniva dalla Pisana e sin da piccolo si era sempre dovuto fare il culo. Anche lui aspirava al professionismo nella scalata, ma per potersi pagare la benzina doveva arrabattarsi con qualche lavoro. Per lui, noialtri eravamo tutti figli di papà. E un po’ era vero. Ignazio, anche se non aveva mai una lira, “A Jo (Jolly) me so sbajjato, non c’ho i soldi per la benza”, abitava in un grande appartamento al centro, il padre (il “tutore” come lo chiamava lui) era un dirigente della RAI, la madre una “bossetta” alle belle arti. Bibo e il Tozzo venivano da Corso Trieste, io dall’Aventino. Tutto l’ambiente del CAI, dove ognuno di noi aveva cominciato, era impregnato di ricchi professionisti e intellettuali di sinistra, comunisti con la villa a Capalbio e a Cortina. Molta della sua grinta, quando scalava, il Dibbari la tirava fuori da lì, da quella tensione di classe. Anche lui, in quanto a carisma, energia e simpatia, non era inferiore né al Finocchi né al Tantaillo. Il Dibba era ipercinetico, quasi schizzato ma sensibile, a modo suo spirituale e un po’ filosofo. Era spinto da un fuoco che gli ardeva dentro e che non riusciva a sopire. Quando scalava dava sempre il massimo, con quel suo stile di scalata scattoso, un piede puntato e l’altro sempre un po’ a ravanare, anticipava quella che sarebbe stata la tecnica moderna, meno elegante ed effeminata, ma più efficace. Il Finocchi era il tipico scalatore anni Ottanta, sempre appiccicato alla parete come una ranocchia, sullo stile di Patrick Edlinger e di Manolo. Il Dibba, invece, se poteva i piedi neppure li poggiava, sostenendo che così si faceva meno fatica. Contava il risultato finale, chiudere la via, in un modo o nell’altro: le spaccate e gli sculettamenti andavano bene per i ballerini frocetti.

Entrambi i pezzi A. e B. qui sopra sono stati scritti da Alessandro Jolly Lamberti, uno dei più forti climber italiani. Jolly ha studiato in modo accurato e meticoloso la teoria e pratica dell’allenamento per l’arrampicata, e con un’esperienza ventennale nel suo bagaglio ha scritto quello che è tuttora il testo di riferimento in proposito:

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Gli scritti che ho riportato sono invece tratti da:
http://www.climbook.com/sezioni/2-storie-vere
e sono contenuti nel libro La decadenza della scalata moderna e altri racconti.

Capitolo 10
L’estate sta finendo, cantano i Righeira.
Anzi, è finita da un pezzo. Trascorso il mese di settembre, da Guido il Mozzarellaro non c’è più movimento. Ci sono i camionisti, loro sì. E da quest’anno (1984) ci sono anche gli arrampicatori.
In mezzo alla settimana sono due o tre, saltuari, imprevedibili, capelloni, ventenni. Hanno affittato una casetta minuscola e fatiscente a pochi passi da là.
Ma il sabato e la domenica sono molti di più. Li vedi arrivare verso le dieci del mattino, una macchina dopo l’altra. Scendono strani gruppetti, composti in modo imprevedibile, come se si mischiassero sempre le carte di uno stesso mazzo. Ci sono più o meno quei quindici o venti quasi fissi. Gli altri ruotano: vengono una volta, poi spariscono, ritornano.
Lasciata la macchina, prendono gli zaini e si avviano, come se tornassero in direzione di Roma, verso la galleria.

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Come ci vedeva Guido, il Chiromante?
Come vedevamo noi lui?
Qualcuno, un po’ cinicamente, diceva: “Gli abbiamo fatto muovere un po’ gli affari. Qui d’inverno non gira nessuno”.
In effetti noi andavamo sempre. Pochi ma fedeli. Anche con la pioggia. Tre o quattro tavoli li riempivamo: mozzarella e pomodoro, qualche oliva, un panino al prosciutto, una birretta alla spina…
Ma Guido non era così. Non pensava tanto ai soldi. Gli interessavamo noi. Si sarebbe detto che ci osservava, ci studiava.
A molti, e penso soprattutto a Stefano, Guido voleva un gran bene. Dopo un anno o due se lo coccolava, gli faceva gli scherzi. Anzi, in realtà faceva scherzi a tutti.
Impossibile dimenticare il suo termos “a sorpresa”: diceva che ti offriva del tè, e tu ingenuamente aprivi il barattolo e cosa saltava fuori? Indovinate? Una cosa più o meno cilindrica che sta giusta giusta, come dimensioni, dentro a un termos…
Lo ha offerto a tutti quelli che son passati. Anche ai big. Anche alle signore, alle istruttrici del CAI…
Un altro suo scherzo: “Facimmo a chi è cchiù alt’…”. Risposta di Stefano, già tra le risate: “Ma dai, Guido, sono più alto io!”. “No, no – insiste lui – facimm’…”. Si avvicina a Stefano e guarda la sua fronte, invitandolo a fare lo stesso. Con una mano, a metà strada fra le due teste, accenna a un gesto di misurazione, ma con l’altra ammolla una botta secca nei testicoli del giovane climber.
Una volta si arrabbiò perché aveva capito che mettevamo dei fogli di giornale nelle buche (le porte) del biliardino… In questo modo le palline non cadevano giù, e con cento lire potevamo giocare per due ore (d’inverno la giornata arrampicatoria finisce presto…). Arriva lì sbraitando cose incomprensibili. Tutti zitti. Ognuno pensa tra sé: stavolta l’abbiamo fatto incazzare sul serio.
Ma lui: “Nun sefà accussì, che finiss tutt’a carta int’o biliardino…” E mentre dice questo, ci porge gentilmente due stracci presi al bancone. Bisogna metterci gli stracci, nelle porte… Non s’è arrabbiato per i soldi, ma per i pezzi di carta che finivano dentro.
Guido ci voleva bene. Ne sono sicuro.
Ai muri avevamo cominciato ad attaccare qualche poster di arrampicata. Ce ne era uno con una foto del bombé di Pichenibule che ritraeva Edlinger. Commento di Guido, sempre rivolto a Stefano: “Chist è ‘no campione! no tu!”.
E poi voleva sapere, a suo modo, il grado della via del poster: “Quest quant’è? quanto fa? Ciento pe’ ciento…? Cientodieci pe’ ciento…?”
110%… La pendenza! Guido s’era accorto che la parete di quella foto strapiombava…

StoriaArrampicataRomana-2-9

 

Capitolo 11
Perdonatemi le divagazioni (che però a volte sono la parte migliore). Cercherò di ritrovare il filo del racconto.
Eravamo rimasti a quel week-end in cui portai il Tozzo per la prima volta a Sperlonga. Fu così che conobbi Jolly (di cui già si diceva che era uno “forte”). E si consolidava nel frattempo l’amicizia con Ignazio.
Andare a Sperlonga voleva dire non solo spellarsi i polpastrelli sulle gocce affilatissime, ma anche farsi un’idea di chi in quel momento era al top.
Come ho detto, di vie sotto al 6a ce n’erano davvero poche, e quindi Sperlonga continuò a esser frequentata, almeno per tutto il 1985, da una sorta di élite di arrampicatori. Gli altri si affacciavano, si facevano quelle 5-6 vie abbordabili, e ritornavano, a volte, qualche mese dopo. Dal che capirete – fra l’altro – che in quegli anni, al contrario di oggi, se uno faceva il 6a (il 6a di Sperlonga!), era considerato “forte”.
Andate a fare il “6a” di Pronto Raffaella, o del secondo tiro di Flippaut, e capirete che c’era una logica in quel ragionamento.
Così sapevi che i “forti” erano quei 10-15, e non di più.
Cominciavi a frequentarli, a parlarci, a chiedere informazioni su questa o quella via…
Con il Tozzo andai anche in giro per le altre palestre (il francesismo “falesie” non esisteva): al buon vecchio Morra, a Leano, ecc. Prendevo gradualmente fiducia nell’arrampicare da primo.
Ovviamente non esisteva Ferentillo, e ancor meno esisteva Grotti. Norma e Sezze erano due nomi e basta: liquidati, sulle guide dell’epoca, come pareti di scarso interesse.
Bassiano non esisteva. Supino non esisteva. Ripa maiala non esisteva.
Insomma, direte voi, ma che cosa esisteva?
Diamine, lo sto dicendo e ripetendo fino alla nausea: eravamo agli albori. Non esisteva quasi niente. Non esistevano i tabelloni, le palestre indoor, non esistevano le gare, non esisteva la FASI. Non esisteva nemmeno l’8a: se non come leggenda (“pare che in Francia ci siano due fratelli fortissimi, ancora più forti di Edlinger: si chiamano Marc e Antoine Le Menestrel… Sembra che hanno fatto l’8a…”).

Sperlonga, Parete del Chiromante (da http://www.stadler-markus.de/files/sportklettern/sperlonga.htm)
StoriaArrampicataRomana-2-10

A: il Castello invisibile
B: Avancorpo di sinistra
C: il Mercantino delle pulci
D: Parete del Chiromante
E: Avancorpo di destra
F: Fascia superiore
G: Mura di amacord
H: Signora delle maniglie
I: l’Isola che non c’è
L: il Pilastro di ponente
M: Spiagga sotto il pilastro di ponente
N: la grande Muraglia
O: l’Anfratto
P: il Tempio

 

 

Sperlonga, Monte Moneta (da http://www.stadler-markus.de/files/sportklettern/sperlonga.htm)
StoriaArrampicataRomana-2-11

A: il Faro
B: Avancorpo di sinistra
C: Avancorpo sotto la grande cengia
D: Paretone
E: Avancorpo di destra
F: Parete delle Meraviglie
G: Avancorpo del Mistero
H: Berger

Diciamo che per me esisteva il primo tiro di Flippaut, che mi aveva respinto a brutto muso. “Maledetta cazzo di placchetta appoggiata di 3 metri, vaffanculo, liscia! Porca puttana!”
Un giorno vedo, proprio sul primo tiro di Flippaut, il fratello di Paolo Caruso, Roberto. Un gran pezzo d’uomo (di ragazzo), certo non il mingherlino tipico di queste parti. Io sarò ancora un pivello – penso – però scalo meglio di questo qua (la modestia, in queste cose, non m’è mai mancata…). Roberto segue i consigli di qualcuno da sotto. Sale dritto un metro anziché traversare subito a sinistra, e prende un bel buco per tutta la mano, poi fa una grossa spaccata, riesce ad arrivare a un’altra presa decente, infine fa ancora qualche movimento che non ricordo sbucando sul terrazzino. Insomma, morale della favola, passa senza fare resting.
Gran rosicata mia. Resto muto, imbronciato, riflessivo.
Ma al tempo stesso: apriti cielo! Si accende una lampadina.
Roberto – continuo a pensare – ha fatto una sequenza precisa, memorizzata, incredibilmente efficace. Sapeva esattamente dove mettere le mani, dove mettere i piedi. Non ha esitato, non ha perso tempo, non s’è stancato (il termine “acciaiato” ancora non esiste…).
Ha usato dei trucchi, glieli avranno suggeriti, però intanto è passato.
Il cervellino di Smilzo, mosso dall’invidia, è tutto un formicolare.
Allora si fa così.
Si va sulla via. Si provano bene i movimenti, magari facendo resting. Bisogna capire i trucchi (se ci sono). Bisogna inventare, studiare la roccia centimetro per centimetro, vedere su quale presa ci si tiene meglio…
Inutile aver fretta. L’importante non è arrivare presto in sosta. Ma capire: capire in che modo posso passare, così da riprovarci in un secondo momento e salire in “vera” libera: rotpunkt (questo termine esiste!)…
Aaaahhh, ora ho capito.
Decido nei giorni seguenti qual è il mio obiettivo. Ho fatto, più o meno, vari 6a e 6a+. E’ ora di salire un 6b. Ma un 6b vero! meglio se magari è un 6b+, così non ci sono dubbi.
“Ignazio, tu che li conosci, i 6b e i 6b+, quale mi consigli?”
“L’hai fatta Serena? Non l’hai ancora fatta? MADDAI! (il famoso MADDAI del Tantaillo) Allora devi far quella”.
La domenica dopo sono lì col Tozzo, sotto la via. Sono pronto a tutto, a spararmi resting su resting, ma devo farcela, e capire i movimenti. Mi hanno detto che la partenza sullo strapiombetto è dura. Tutto sta a portare i piedi su due appoggi, proprio sul bordo del tettino. E poi da lì, devi tenerti su delle cose piccole. In compenso la parte dura non è tanto lunga: dopo i primi 5 metri diventa più facile.
Mi sono portato in tasca delle pasticche di un prodotto nuovo: si chiama Enervit! Così avrò le energie per arrivare in sosta.

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Storia dell’arrampicata romana – 2 ultima modifica: 2016-12-16T05:54:25+01:00 da GognaBlog

5 pensieri su “Storia dell’arrampicata romana – 2”

  1. 5
    Marco Baiocco says:

    manca uno spaccato dell’arrampicata di Pietrasecca e dei locals degli anni 80

  2. 4
    roberto macri says:

    Bellissimo, grazie. Non sono un appassionato di arrampicata, ma uno che ha avuto la fortuna di conoscere Stefano Finocchi ad Aosta per tutto il 1986. (servizio militare). (l’ho visto allenarsi in camerata issandosi con i mignoli diverse volte: hai proprio ragione, fortissimo di dita!!).
    Ti chiedo se hai notizie di lui, qualche riferimento, la mail ecc… vogliamo fare una rimpatriata (sono passati 30 anni!!) e stiamo cercandoci in giro per l’Italia. Mi chiamo Roberto Macri. Ti ringrazio sia per l’articolo che per il disturbo che ti arreco

  3. 3

    Non farci aspettare troppo per il seguito. Complimenti.

  4. 2
    Alberto Benassi says:

    bello. Veramente bello.
    Si sente quanto hai vissuto intesamente quei momenti.

    Mi piacerebbe tu ci raccontassi cosa fanno oggi, cosa sono diventati, quei ragazzi di allora.

  5. 1
    ARMANDO SCARPA says:

    Affascinante racconto

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